Mi sono arrivati tre libri di Guglielmo Aprile. Avevo già spiluccato alcune sue liriche su Internet. Avevo già intuito che si trattasse di un ottimo poeta. Li lascio lì per qualche minuto sul comodino. Forse mi dico che rimanderò la lettura di questi versi. Ho un bel mal di schiena. Ho l'otite. Mia madre ha il Covid. Io e il resto della famiglia siamo negativi, ma deve concludersi il periodo di incubazione e poi dobbiamo fare un altro tampone. Avrei ben altro a cui pensare! Eppure prendo in mano il primo libro che mi capita, ovvero "Thanatofobia", edito con Edizioni Progetto Cultura. Una poesia tira l'altra. Lo leggo tutto d'un fiato perché c'è qualcosa che mi cattura, anche se non so esattamente che cosa. Forse mi cattura il senso di estraneità oppure la sospensione (senza necessariamente ricorrere a dei puntini) oppure l'espressionismo (come ha scritto Giuliano Ladolfi) oppure proprio l'oggettivazione della paura della morte, che rende bene quello che sto provando in questo periodo. Nel pomeriggio leggo i restanti libri. Leggo "Elleboro", pubblicato con Terra d'ulivi, e "Farsi amica la notte", edito con Giuliano Ladolfi editore. Sono tre raccolte dense e impegnative, ma davvero ben fatte. Come si suol dire uno dei motivi della pregevolezza è oltre al bello stile la coerenza interna. Li sottolineo. Rileggo ciò che ho sottolineato. Mi rendo conto che mentre leggevo mi sono dimenticato di acciacchi, preoccupazioni ed è questo che dovrebbe essere la poesia, ovvero un toccasana dell'animo o comunque un anestetico. Non ci sono dubbi a riguardo a mio avviso: Aprile è un ottimo poeta metafisico ed esistenziale, che mette tra parentesi l'io, lo occulta; eppure l'io non è mai assente, è il regista di tutta la sua poesia, anche se è una presenza discreta. Colpisce la precisione chirurgica della nominazione, anche se non la ostenta mai con virtuosismi e leziosismi, insomma con orpelli inutili. Aprile sa come condurre il gioco, sa dove vuole far parare il discorso. La sua è una poesia per nulla semplice, ma potente perché quasi onnipervasiva e onnicomprensiva. Non descrive, non elenca, non categorizza spesso ma metaforizza, simboleggia. Di tutto ciò ne ha bisogno una parte di noi, forse quella più ignota e oscura. Aprile è un fine dicitore, che rifugge l'arte dell'aforisma e quella del bozzettista. Piuttosto si situa sapientemente a metà strada tra queste due tendenze artistiche. Il poeta rivela un gusto del paradosso, intelligente e controllato perché sa perfettamente che la poesia è qualcosa di più di una battuta molto arguta. Sa coniugare attualità e cultura classica. È un poeta completo e versatile nel vero senso della parola, come pochi ormai oggi. Un'altra cosa che mi colpisce di Aprile è che ha il senso della misura. Non eccede mai, non è mai straripante né si limita a fare il compitino. Riesce sempre a calibrare le parole, a ponderare il verso. Stupisce anche il fatto che ogni titolo di poesia sia quasi sempre un'ottima espressione poetica. È un artista che sa il fatto suo, distante anni luce dai facitori di versi improvvisati della domenica oppure a tempo perso. Le sue liriche sono intrise di mistero e sono esse stesse enigmatiche. La vita non è affatto semplice. Il senso del mondo, il disegno dell'universo ci sfuggono. Ma noi non possiamo sottrarci e dobbiamo cercare di svelare l'arcano. Questo probabilmente vuole dirci Aprile. Ma forse vuole dirci anche che la vita è sempre un'incognita. Però nessuno può averne la certezza e il fascino della poesia di Aprile è proprio questo. Ma perché in fin dei conti l'autore è espressionista? Perché a mio avviso sa universalizzare il suo dolore esistenziale. La cosa è riuscita perché ogni lettore che ha una minima cognizione di letterarietà può essere in grado, se ha onestà intellettuale, di rilevare quanto queste raccolte poetiche siano riuscite. Un altro aspetto che mi piace di questa poesia è quello di non essere mai melliflua, di non cercare lo sdilinquimento, di non giungere alla piaggeria. È una poesia onesta fatta senza compromessi né indulgenze, che non cade nelle mode del momento. Colto e complesso Aprile non appartiene a nessuna schiera di poeti, a nessuna categoria, anzi fa razza a parte, forse non eroicamente ma senza ombra di dubbio orgogliosamente. Penso di poter affermare la sua diversità, che non è mai eccentricità, in quanto ritengo di avere un minimo di visione d'insieme o se non altro un minimo di percezione riguardo a ciò che sta accadendo nella poesia italiana oggi. Aprile sa armonizzare razionalità e inconscio, tradizione e innovazione, antico e moderno. Lui si definisce una sorta di sciamano delle parole, ritiene che la sua poesia sia un rituale sciamanico. Questa sarebbe la dichiarazione di intenti, ma a ben vedere va oltre Aprile perché nelle sue raccolte sono egregiamente rappresentati la sovrastruttura, la struttura e l'infrastruttura (della psiche). Il suo pessimismo spicca in tutti i libri, tant'è che solo pochissime volte si rivolge forse alla persona amata, solo pochissime volte compare il tu. È soprattutto una poesia di cose e di correlativi oggettivi, da cui traspaiono l'angoscia e lo smarrimento esistenziale. Altro pregio a mio modesto avviso è il fatto che Aprile non è un poeta che finisce nei meandri del sentimentalismo per cuccare o viceversa rimuove la sessualità. Anzi anche in questo senso dimostra equilibrio interiore. Dimostra anche il suo equilibrio psichico perché riesce a mettersi faccia a faccia con l'assurdo camusiano senza mai cadere nell'abisso , stando sempre in uno stato di tensione produttiva e non facendo di ogni sintomo un simbolo, come dicevano un tempo. Aprile, classe 1978, nato a Napoli nel 1978, che attualmente vive a Verona, dove fa l'insegnante, è una voce molto originale della sua generazione poetica per creatività, capacità verbali, personalità, stile. Dispiace che nonostante la sua qualità e la sua prolificità se ne stia appartato, schivo. In questi ultimi anni ad esempio ho guardato diverse dirette Facebook e non l'ho mai visto. Appartiene alla comunità poetica ma quasi si tira indietro, rifugge l'ambiente letterario. Eppure l'autore avrebbe molto da dire in certi salotti e la sua presenza potrebbe essere un arricchimento nell'ambiente poetico. La sua penna non è mai a corto di inchiostro. L'autore riesce sempre a trovare il tempo per scrivere e non è mai a corto d'ispirazione senza finire in scimmiottature o rifacimenti. Una continuità nei suoi libri esiste o almeno io la avverto, però non ripete mai il solito libro. Il poeta cambia sempre tema a ogni libro e scrive molte variazioni su ogni tema. Il dolore è una presenza costante nella sua poesia e la parola poetica giunge sempre inaspettata; sta a noi leggerla, metabolizzarla, comprenderla, infine farla nostra. Comunque il poeta dovrebbe forse essere più presenzialista perché avrebbe se non altro il dovere di far conoscere a quante più persone possibile la sua poesia tutta da leggere e da scoprire. In ultima analisi la poesia di Aprile è un azzardo riuscito, una scommessa vinta e al contempo la resa dovuta al senso di sconfitta inesorabile, che ogni uomo, anche il più riuscito professionalmente, ha se si guarda un poco dentro in modo accurato e circostanziato. Aprile dovrebbe avere la giusta considerazione che gli spetta dalla critica letteraria, non sempre colpevole di molte sviste, date l'immensa mole di libri di poesia pubblicati ogni anno. Ma l'etica dei critici imporrebbe loro di saper dividere chi ci marcia su da chi vale, come dicevano negli anni '70. Per tutte queste ragioni elencate vi consiglio di leggere le 3 raccolte poetiche citate. Non ne rimarrete assolutamente delusi.
Quella crepa nel cuore delle cose
Il tavolo, i finestroni, le lampade:
arginano una burrasca,
non sono che barriere
al ronzio che sta salendo e alla nebbia
che cresce, allo sciame che si infittisce.
Una sinistra e una destra: il mondo
si specchia nell’idea che pressappoco
chiunque ne ha e riconosce per vera,
si ripara in queste quattro pareti
dal delirio. Ma tutto può accadere,
tutto! Sento avanzare già lo strappo
nel cartone di alberi e di edifici:
un presagio di crollo, un improvviso
schianto, nell’oscillare
della segnaletica appesa a un palo
così sottile, appena un primo brivido
cala da nord. Lo strano inquilino
che non parlava mai, quello che occupa
la stanza al quarto piano, forse è morto
stanotte. Ma riemergono smorzati
i rumori giù dalla strada; è tardi,
riponiamo con zelo ogni volume
sul suo scaffale in base all’etichetta,
continuiamo ad addizionare gusci
di noce su gusci dentro ad un piatto.
*
Quando è solo
La sera, quando tutti dalla spiaggia
sembrano andati via,
il mare è come assorto
in un lungo monologo ostinato;
il suo volto è velato da un livore perlaceo
e lui
nella sua cella
da millenni
inascoltato tesse
quella sua serrata meditazione
a bassa voce: ogni onda
un pensiero, un passaggio
del suo argomentare lucido e inconcludente;
parla da solo, come i matti,
o sta forse pregando, e quale dio?
Vigila alle porte chiuse
di una questione enorme
come il tempo, come il suo orizzonte,
ma non arriva mai a una soluzione.
*
Roulette
Vivere è anche possibile, a patto
però di una dose di sventatezza:
è il lancio dei coltelli,
è il colpo di carambola,
è il biglietto in omaggio sulla giostra;
è forse il nostro, il prossimo
dei nomi estratti: ma chiudiamo gli occhi
e intanto la galassia, nel suo abbraccio
centripeto, avvinti ci porta
alla polvere dell’arcobaleno.
*
Non era vero niente
Non siamo noi che viviamo ma i nostri
doppi, i nostri gemelli
di riserva, che solo esteriormente
ci somigliano, e a un occhio poco attento.
Il film in cui ci sembra
di riconoscere noi stessi è favola:
libero adattamento di vicende
inventate di sana pianta o svoltesi
in circostanze poco chiare: dubbia
versione che nel suo farneticare
farraginoso un solo testimone
e per di più ubriaco, in un’altra lingua,
balbetta a stento. Vera è soltanto
la trama che sospendono i piccioni
nel vuoto, da un cornicione all’opposto,
la parola che la mano del cielo
scrive e già in pochi minuti cancella,
che non significa niente e bellissima.
L’esperienza
Non ti fermare dai contrabbandieri di datteri,
nel pozzo trovi sabbia
anche se hai sete,
la mantide è divorata appena dopo l’amplesso,
crampi allo stomaco e piatti sporchi
lasciano i convitati andando via,
un retrogusto acido al palato
segue il morso alla melagrana,
lo scirocco può trascinare al largo,
il mare è fuoco per l’assetato,
tagliato male il vino della festa;
gli ambulanti è da ormai una settimana
che hanno sbaraccato, un ricordo
di catrame secco e gomma bruciata
al posto delle loro bancarelle
di bengala e perline colorate.
Maya
È bugiarda la nebbia,
le sue maestose architetture si sciolgono
contro la legge dell’alba;
c’è una Venezia addormentata nello sguardo di chi ama.
Il contrabbandiere sale da mare
sempre alla stessa ora, la sa più lunga di noi:
ci caschiamo ogni volta
che ci propone uno dei suoi vantaggiosi affari.
Ci distrae facilmente
l’improvvisa risata dei tendaggi
ma è un capriccio del vento; ci voltiamo
ai neon intermittenti, al loro minimo cenno.
C’è un volto offeso dal vaiolo, una periferia brulla,
dietro ogni porta
che non avemmo la cautela
di lasciare socchiusa.
Diari di Mandeville
Da ragazzi è perdonabile credere
alle carte geografiche di età precolombiana,
ci si lascia sedurre
dalle topografie immaginarie
avvistatrici di qualunque eldorado
e alla loro sconfinata bugia;
poi le leggende si strappano il trucco,
si entra in una nazione al congiuntivo:
e sei già adulto, impari
a menadito il numero assegnato
dall’anagrafe e lo sai ripetere
con tranquillità ai posti di blocco,
ti unisci alle facili ironie
sull’aria pura dell’alba che fa
sembrare dilatate le distanze e la strada,
sul bugiardo splendore
che per poco paesaggi e volti assumono
per effetto della rugiada
o per una neve fuori stagione