Siamo ancora agli albori dello studio scientifico dell'intelligenza umana, che è molto più complesso, articolato, controverso di quanto si possa comunemente pensare. Il primo test d'intelligenza è la scala Binet-Simon del 1905, nata per individuare e aiutare i bambini con deficit cognitivi e disturbi dell'apprendimento. Il Q.I, cioè il quoziente di intelligenza, è diventato famoso in tutto il mondo, ma è un concetto assai datato. Si è discusso molto sulle sue implicazioni etiche, sul ruolo dell'ereditarietà e dell'ambiente, sulle possibili pieghe razziste che poteva prendere il Q.I, sugli stessi dubbi sui requisiti di scientificità che poteva sollevare. In realtà già con il parallelepipedo dei 120 cubetti di Guilford, in cui ognuno di essi rappresentava un'abilità mentale, iniziò l'approccio multifattoriale dell'intelligenza umana. Più recentemente Howard Gardner, accortosi che persone con sindrome frontale e alto Q.I avevano dei deficit d'intelligenza sociale (come comportamenti sociali del tutto inappropriati), mise a punto il modello delle intelligenze multiple. Nei primi anni duemila Goleman criticò il Q.I, evidenziando che i classici test non tenevano in considerazione l'intelligenza emotiva. Di solito le persone pensano di poter valutare in modo facile e veloce l'intelligenza altrui. Oppure pensano che il Q.I e/o i risultati scolastici e/o il successo nella vita possano stabilire esattamente l'intelligenza di una persona. Queste teorie più o meno esplicite delle persone possono rivelarsi totalmente fuorvianti. Il neuroscienziato Braitenberg nel suo libro "Il cervello e le idee" a tal riguardo confessava che a volte nella vita era convinto che un tale fosse più o meno intelligente di lui e che poi dopo anni si era ricreduto del tutto. Lo studio dell'intelligenza umana è molto complesso perché ogni cervello umano è costituito da 85 miliardi di cellule nervose e in questo senso il Q.I è un'ipersemplificazione dell'intelligenza umana, ammesso e non concesso che non sia una pretesa assurda misurarla. Inoltre un limite intrinseco della misurazione dell'intelligenza è che per studiarla dobbiamo per forza osservare un comportamento ed è relativo alla cultura e a discrezione degli ideatori dei suddetti test stabilire quali comportamenti si possano ritenere intelligenti o meno. Non solo ma nessun test saprà mai tenere in considerazione la passione, la motivazione, lo spirito di sacrificio di un individuo a studiare o a lavorare. Vorrei ora porre l'accento sul fatto che il Q.I non tiene conto della neuroplasticità e della neurodiversità. Per quanto riguarda la prima è difficile quantificare i miglioramenti culturali ad esempio di una persona, che causerebbero un maggior numero di connessioni cerebrali, di nuove sinapsi. Per dirla in termini psicologici il Q.I classico misura l'intelligenza fluida, cioè le capacità di problem solving, e non la cosiddetta intelligenza cristallizzata, cioè la formazione culturale di un individuo e le sue competenze. Per quanto riguarda la neurodiversità ci sono persone autistiche, ad esempio degli Asperger, che sono geniali in un ambito ma le cui abilità non vengono quantificate tramite il Q.I. Però questo vale anche per altre persone creative. Il Q.I infatti potremmo affermare che misura in modo approssimativo il pensiero convergente, ovvero la logica deduttiva comune. Ma il pensiero divergente non viene premiato, anzi è penalizzato. Le università con i test d'ingresso, le aziende, le istituzioni fanno un grandissimo uso di questi test. Ma se da un lato le organizzazioni hanno bisogno di "intelligenza convergente" (chiamiamola così) per sopravvivere, si sottovaluta il fatto che hanno anche bisogno di pensiero divergente e di pensiero laterale per risolvere problemi in modo originale, per porsi domande nuove, per affrontare nuove sfide, per approcciare in modo diverso la realtà, per innovare, per percorrere anche quella che il poeta Robert Frost definiva "la strada meno battuta". Forse le organizzazioni cercano di escludere i creativi, gli originali, perché hanno il timore di non saperli gestire oppure perché addirittura li considerano dei tipi troppo problematici e fonte di possibili guai. Per alcuni industriali creatività significa solo caos e disordine e solo i pubblicitari possono permettersi di essere creativi. Insomma il grande rischio dello smodato uso del Q.I è quello di selezionare quelli che sono ritenuti i migliori invece di escludere con esso solo i peggiori, oltre a quello di non impiegare nuove energie creative. Di conseguenza può esserci nelle organizzazioni una grande standardizzazione cognitiva, un'omologazione intellettiva, perché le forme d'intelligenza sono molte, ma i test del Q.I privilegiano solo quella più comune.