"Uno strappo bianco" di Roberto Lamantea (InternoLibri)

"Uno strappo bianco" di Roberto Lamantea (InternoLibri)
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Non bisogna essere filologi né studiosi di letteratura per capire che questo lavoro di Lamantea sia di pregio, di ottima fattura, per quanto vadano messe in conto la soggettività e la mancanza di avalutatività presenti nella formulazione di ogni giudizio critico.  Certo la prefazione di Giovanni Ferro e la postfazione di Umberto Piersanti, candidato tempo fa al Nobel della letteratura, dovrebbero essere garanzia di qualità elevata, per quanto tutti pensino di sapere cos'è la poesia e ognuno abbia una sua concezione personale di poesia. Lo stesso Piersanti ritiene che la poesia di Lamantea si situi tra la sua e quella di Zanzotto.  Lamantea  possiede a mio avviso una  grande maturità e dei punti di riferimento grazie a cui orientarsi,  in quanto  non va a caccia  di terre di nessuno, di territori inesplorati, di paradossi: sa bene che la morte di Dio annunciata da Nietzsche è diventata certezza di massa (come scrive Massimo Onofri), che è avvenuto "il tramonto reale delle ideologie" (come ha scritto Lucio Colletti) e che l'unica forma di pensiero rimasta sia "il pensiero debole" di Vattimo.  Il poeta rivela  ponderatezza anche nel non cadere nell'impersonalità, come vorrebbe la critica dominante, né  nel culto dell'io, nell'egotismo, tipico di molti poeti neolirici: in questo senso non ha pretesa di oggettività e neanche è egoriferito. Non ricalca schemi consolidati e nemmeno segue l'extraletterario o i modelli ipertestuali. È teso all'essenziale senza sbavature e senza  mai cedere alle lusinghe dell'ipersemplificazione. La sua è un'eloquenza sorvegliata, in cui si percepisce un grumo di dolore. Nelle sue pennellate si può trovare un equilibrio compiuto in tutto questo trambusto,  in un periodo come questo convulso, drammatico. Le sue sono parole scelte con cura. Non c'è mai  troppo io, non ci sono troppe cose nella sua poesia, che è fatta invece di continue corrispondenze tra i suoi stati d'animo e il mondo. Trovo che da un lato verbalizzi la provvisorietà e la finitezza umana, mentre dall'altro non faccia che domandare continuamente alla sentinella di Isaia "quanto resta ancora della notte?". Non vagheggia nessuna utopia ormai, se non quella di conciliare vita e poesia. Non è razionalistico, ma la sua poesia suggestiona e esprime invece il lato irrazionale dell'esistenza.  Piuttosto in modo avveduto ricostruisce nei  versi tutta la sua esperienza, rifuggendo la malinconia e l'affabulazione, l'effusione e la retorica, non scadendo mai negli stilemi novecenteschi né in quelli di inizio millennio,  nel plurilinguismo e nemmeno nella medietà o nel linguaggio basso. Evita gli ammiccamenti al lettore, le speculazioni, il cattivo gusto.  Evita le forme chiuse, così come la sperimentazione della poesia di ricerca (e ciò da alcuni critici militanti potrebbe essere visto come un punto debole o un'imperfezione), trovando nuove sonorità e dimostrando una coerenza tra vita e una poesia, che purtroppo non può essere pervasiva, dato che come cantava decenni fa Vecchioni il giornalista, seppur fatto con scrupolo, professionalità e passione, è soprattutto "un modo di campare". C'è dell'assertività ma mai eccessiva, piuttosto ben dosata. Essere un poco assertivo è per Lamantea un modo di essere e non una semplice posa. Poi tutti i poeti, anche quelli di ricerca che non scrivono mai "io", vogliono affermare sé stessi. Non capisco inoltre perché per alcuni in poesia l'assertività debba essere un difetto quando per tutti gli psicologi è una qualità ad esempio. Il poeta  sa bene che, come ha dichiarato Tiziano Scarpa in una intervista, la letteratura non è "medium, ma un mezzo". Il dissenso alla società odierna è implicito nella poesia di Lamantea,  ma fa parte della vita di tutti i giorni, anche di quella social, e costituisce senza ombra di dubbio le fondamenta della sua poetica. La poesia per Lamantea è un bisogno esistenziale; ha una peculiarità fondamentale dal punto di vista fenomenologico. Suppongo che la faccenda non possa essere liquidata facilmente, ad ogni modo ritengo che la scrittura per Lamantea sia un'attestazione di vita. Purtroppo dispiace che l'Italia sia un luogo inospitale per la poesia, che non viene contemplata dalle odierne regole del gioco di una società, in cui l'affarismo ha la meglio sull'imprenditorialità, le cose sull'uomo, il capitale sul lavoro, il lavoro sulla vita. In Italia le peggiori cover band hanno un loro seguito a differenza dei poeti. Sarebbe l'ora di riaffermare la personalità autentica, la libera espressione di sé,  la sintesi creativa, la potenza di plasmare, le potenzialità inespresse, la stessa individualità,  che si trasforma in comunità. Fa comunque piacere questo libro, frutto di sinapsi indipendenti, in un tempo di egemonia di Coca Cola e Mc Donald's, dove noi siamo "merci bipedi" (come scrive R.Kurz), i consumatori sono "atomizzati" e "subalterni" (come scrive Oscar Marchisio),  la poesia è "geneticamente modificata" (secondo lo stesso Lamantea) e il potere si è impadronito del nostro corpo, della nostra psiche, del nostro immaginario: scrivere poesia come anche fruirne è un modo di riappropriarsi di una quota parte, forse non marginale, del nostro inconscio sia individuale che collettivo.

Con la sua poesia Lamantea riesce a coniugare musicalità (la cui ricerca sembra a tratti un rito apotropaico) e raccoglimento interiore, meditazione e contemplazione della natura. Predominante è il paesaggio, spicca ad esempio il bosco, che non è il Galateo del bosco zanzottiano né l'Holzwege heideggeriano, piuttosto un luogo mitico dove ritrovare un'armonia perduta. Non devono interessare a nessuno i fattori scatenanti che ispirano Lamantea; poco importa sapere se consideri il lettore come suo fratello o suo simile; poco importa sapere i suoi dati biografici, i suoi stati di coscienza,  i suoi dati percettivi, i suoi travagli stilistici, la sua autoanalisi psicologica, anche se sicuramente percepiamo che la sua poesia sia frutto di un continuo  scavo interiore; l'importante è l'insorgenza della poesia stessa.  È una poesia classica, letteraria, ma allo stesso tempo spontanea e di difficile classificazione.  Sono lodevoli la capacità di comunicare simbolicamente e l'ascolto, la ricettività nei confronti delle voci del mondo. Per l'autore il mondo è una foresta di simboli, per dirla alla Baudelaire, ma ugualmente non tutto finisce per essere arcano, c'è sempre qualcosa che ha un senso compiuto: l'autore sa mettere i piedi dove il terreno non si sfalda e nel presentare il mondo non c'è nessun trucco, nessuna messa in abisso.  Le liriche sono provviste di assonanze e rime, ma niente è ludico: la vita viene sempre presa sul serio e non viene omessa la sua tragicità. Penso a riguardo della sua musicalità che possa essere psicanaliticamente intesa come voglia di ritornare nel ventre materno, di ritornare ad accordare il proprio battito con quello della genitrice. Non potendo soddisfare questa voglia primigenia si limita ad accordare il proprio io al canto della natura. Ad ogni modo è piacevole il ritmo cadenzato dei suoi versi. A discapito delle rime e delle assonanze va detto che la loro ricerca è soggetta all'euristica della disponibilità, un bias cognitivo scoperto da Tversky & Kahneman, secondo cui vengono alla mente le soluzioni più immediate e più facili da richiamare in memoria. Facendo ricerche i due studiosi hanno scoperto che per le persone inglesi è più probabile che la lettera R compaia in prima posizione invece che in terza posizione perché secondo Rino Rumiati è "più facile effettuare una ricerca in memoria delle parole che cominciano per una data lettera di quanto non lo sia per le parole che hanno quella lettera in terza posizione".  Ciò accade perché la nostra memoria a breve termine è limitata a differenza di quella a lungo termine. Questo però vale per ogni poeta.  È una costante mentale umana. A favore delle rime e delle assonanze al contempo bisogna dire che gli inconsci individuali a differenza di quello collettivo e di quello istintuale sono tutti diversi e anche l'inconscio cognitivo con cui il poeta cerca rime è individuale, oltre al fatto che ognuno dispone di un suo vocabolario personale. Nel caso specifico di Lamantea non mancano mai le sorprese nei suoi testi. Il poeta sa rimare bene a scanso di equivoci, senza mai risultare scontato o eccedere.   Queste poesie si leggono tutte d'un fiato, anche per i lettori meno esperti. Consiglio personalmente di leggerle senza cercare il significato a tutti i costi e senza chiedersi da quali meccanismi mentali siano scaturite. La raccolta è la dimostrazione che la poesia non escluda necessariamente la ragione, ma che anzi sia dotata quando è sobria ed elegante come questa di una sua intelligenza specifica.  Borges di un suo antenato scrisse che  non aveva vissuto in una bella epoca. Ebbene Lamantea ci ricorda forse che nessuno ha in sorte di vivere in una bella epoca, ma che anche con una quotidiana cifra poetica si possono superare sia il trauma originario di essere gettati nel mondo che il nichilismo. Lamantea prima ancora che un  poeta è un uomo lucido che ha trasceso lo spirito dei tempi; si è liberato dalle catene, è uscito dalla caverna platonica. Il poeta comunque non dà risposte semplici. Parafrasando Cioran la sua forza è nel non aver dato risposta a niente. Un'altra caratteristica precipua della sua poetica è quella di registrare i  mutamenti  interiori, non soffermandosi eccessivamente sulle metamorfosi e i momenti di crisi, che poi tutti abbiamo. Lamantea è perfettamente consapevole, come diceva Mario Luzi,  che l'identità non è data a priori, ma che spesso è - aggiungo io - una conquista faticosa, mai scontata. Si nota in queste poesie una gioia nel comporre e una voglia inappagabile di riappacificazione col mondo. Ma un poeta che si rispetti non è mai un uomo pienamente risolto. Lamantea è fuori dal coro  e fuori dal gregge. È un uomo appartato e anticonformista, che sa prendere le distanze dalle mode, dalle icone, dalle masse. Forse alla disumanizzazione contemporanea non c'è rimedio o forse la poesia è un modo provvisorio per arginarla: nel frattempo leggere queste poesie ci spinge irrimediabilmente alla riflessione e ad interrogarci. Per tutti questi motivi l'animo di ogni lettore può essere terreno fertile per queste liriche. In questi versi il poeta cerca l'armonia con la natura. Qualsiasi istante probabilmente per lui è quello giusto per fare poesia, che per lui è pratica quasi quotidiana,  senza attendere i momenti culminanti della vita, anzi riuscendo a trasformare lo stesso grigiore della quotidianità in poesia;  leggendo le sue liriche si ha la netta impressione che Lamantea sia anche un uomo che ha compreso pienamente la condizione umana e il mondo contemporaneo; non a caso le sue conquiste interiori le restituisce fedelmente al lettore con proprietà di linguaggio, talvolta con precisione chirurgica. La saggezza di Lamantea però consiste nel farci capire che non c'è antinomia tra arte e conoscenza, che la vera ricerca porta più dubbi che certezze.  Per pervenire ad una compostezza stilistica, in cui nessuna parola è mai di troppo, e ad una consapevolezza esistenziale ammirabile ritengo che ci siano voluti anni di riflessione e di letture. Un'altra mia sensazione è che la sua cultura abbia solidi punti di appoggio, ma che volontariamente non si prefigga mete. Leggendo questi componimenti viene da chiedersi dove stia la radice del problema. Viene da chiedersi se il problema sia l'io o Dio oppure entrambi.  Leggendo queste poesie mi viene in mente una frase di Hegel, ovvero "l'uomo non è ciò che è ed è ciò che non è": come a dire che al di là di qualsiasi determinismo biologico e ambientale quello che contraddistingue ogni uomo è l'indeterminazione esistenziale. Tutto questo lo avverto in modo preponderante in queste poesie. Lamantea è un poeta che sa cos'è la poesia (può sembrare una tautologia, non è propriamente così e non è sempre così scontata un'affermazione di questo genere), ma è soprattutto un uomo che sa cosa è l'essere umano. Con questa raccolta supera brillantemente l'esame. E non è poco, anche se il cammino di un poeta è sempre impervio in questo mondo.

Davide Morelli






neve nevosa

neve pleonasma

neve furiosa

neve fantasma

ovatta di neve-fiaba

e dov’è la neve? Era

il paesaggio saggio

un paesaggio foraggio

di primavere

neve nevina neve bambina

e io bambino?

bambino senza neve

era così breve

il paesaggio

innevato giocato sognato

ora volato dove

non c’è più

neanche il più



Zakhor


hai di legno le mani

le pietre disegnano

il tuo corpo


eri vivo e di vita vivevi

nient’altro che luce

scolpivi nell’aria


hai di legno le mani

è di ferro l’aria e di gesso

il canto


di ferro e terra il grido

il nido



Arrivare in treno verso sera

con il cielo che accenna al viola

e le scaglie di luce sul mare

quando chi è solo accenna una preghiera


La strada a piedi fino a casa

l’aria tiepida di primavera

d’Imperia lasciando la scogliera

le agavi e i pruni sulla terra rasa


E il silenzio m’avvolge come un manto

con l’odore del legno e della cera

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