L’11 settembre 2021, ventesimo anniversario dell’attentato alle Torri gemelle e al Pentagono, gli Stati Uniti e le forze militari della Nato si ritireranno dall’Afghanistan. L’intervento militare ventennale rappresenta una sconfitta per l’intero mondo occidentale: il Paese asiatico non ne esce migliorato, anzi è sempre diviso lungo le sue faglie interne. Colpa soprattutto di una Nato incapace di rafforzare una componente islamica in grado di scalzare la popolarità dei Talebani tra le fila del gruppo etnico maggioritario, i Pashtun.
Il quadro del Paese non sarà molto dissimile purtroppo da quello del 2001. L’unica differenza è la sconfitta di al Qaeda, il cui vuoto è stato però sostituito dall’Isis, qui denominato Stato Islamico del Khorasan.
Il Paese, infatti, è diviso. Kabul e le città principali sono controllate dal governo centrale di Ashraf Ghani, supportato dagli Stati Uniti; dietro i Talebani (musulmani sunniti) operano massicciamente il Pakistan e i Paesi del Golfo; dietro gli Hazara (gruppo etnico sciita che vive prevalentemente nella parte centrale del Paese) c’è il sostegno dell’Iran, il più importante Paese islamico sciita. Una guerra non solo “calda” ma anche “fredda” in cui le pedine sono mosse dalle grandi potenze internazionali sia per motivi geo-politici sia per motivi religiosi (tutt’interni al mondo musulmano).
Un caos fatto Paese, ingovernato e ingovernabile, nel quale la pressione dei Talebani si farà sempre più stringente e gli attentati continueranno a fare strage dopo avere ucciso non meno di centomila civili in venti anni.
Dietro questo fallimento c’è stata, in primis, la convinzione, per anni considerata giusta, di esportare il nostro modello di democrazia in Stati con culture, tradizioni e istituzioni diverse: un procedimento di occidentalizzazione che dalla seconda metà del ‘900 è risultato sempre fallimentare. E in Afghanistan il copione si è ripetuto. Esportare la democrazia con le armi per combattere il terrorismo fondamentalista e per sbarazzarsi di quei cd. dittatori, un tempo amici, con cui per decenni è stato necessario e comodo collaborare per mantenere gli equilibri territoriali ed economici nonostante la continua violazione dei diritti dei propri popoli.
Ma più interessante è il secondo errore compiuto dall’Occidente in Afghanistan: capìta l’inattuabilità del proprio modello democratico, non si è stati in grado di rafforzare una componente islamica in grado di scalzare e insidiare la popolarità dei Talebani tra le fila del gruppo etnico maggioritario, i Pashtun che rappresentano circa il 40% della popolazione. Questo perché il tradizionale codice familiare e di comportamento, il Pashtunwali, durante il regime dei Talebani venne integrato con la visione religiosa di quest’ultimi che vengono quindi protetti e sostenuti da tale etnia. E non c’è nulla di più forte del sostegno e della protezione da parte di ogni singolo componente del popolo.
A ben vedere si tratta di un deficit che l’Occidente sconta ovunque: dall’Afghanistan alla Turchia e al Sahel, non trova e non sa favorire – né implementare, se non in Marocco e in Tunisia – una componente islamica omogenea o quantomeno non conflittuale con i propri valori fondanti. Conoscono e sfruttano le tensioni fra le molteplici correnti interne all’Islam trovando, tuttavia, difficoltà quando gli equilibri geo-politici mutano a loro sfavore.
Il mondo occidentale non ha compreso che un conto è la realpolitik geopolitica che li ha portati ad allearsi con l’Arabia Saudita e il Pakistan, altro e ben differente conto è che questi alleati irradiano e sostengono un Islam wahabita e salafita, che genera jihadismo tra gli stessi Stati musulmani e che alla fine collide con gli stessi interessi geopolitici dell’Occidente.
Tutto questo a scapito delle popolazioni locali che vedono dopo vent’anni di “guerra al terrorismo” la distruzione del proprio mondo e dei propri valori.