Ci sono valori, la persona in questo caso, che mantengono sempre lo stesso peso specifico: che non varia a seconda di chi ne parla; che non può essere accresciuto o diminuito a seconda che si tratti di un connazionale o di uno straniero, magari proveniente da un paese povero; che la persona sia amica o nemica, ideologicamente consonante o dissonante. Invece accade ancora, in casa, in Italia.
Ci sono azioni, decisioni che feriscono l’uguale dignità di ogni uomo che nasce e cammina su questa terra. E, quando avvengono all’interno delle istituzioni più alte dello Stato, come il Senato è, lo feriscono gravemente. Il 30 marzo, il Presidente della Commissione Giustizia del Senato Andrea Ostellari non ha calendarizzato l’esame del disegno di legge “Zan” contro l’omotransfobia e l’abilismo (discriminazione nei confronti dei soggetti disabili) a causa della necessità di far approvare il decreto sul riordino dell’esame di avvocato. Immediato è stato il plauso del centro-destra che considera la discussione e l’approvazione del ddl non prioritaria e il testo del disegno fortemente divisivo. La decisione ha smosso ulteriormente l’opinione pubblica e sono scesi in campo in difesa della proposta di legge anche vari artisti.
Nell’attesa di vedere gli sviluppi, è necessario focalizzarci su un fenomeno che risulta nascosto quando si verificano atti di violenza o di discriminazione per motivi sessuali. E risulta essere lo stesso fenomeno che si cela dietro le violenze per motivi etnici, razziali o religiosi: gli “hate speech” o discorsi d’odio.
Un discorso d’odio si può interpretare come un discorso finalizzato a promuovere odio nei confronti di certi individui o gruppi, impiegando epiteti che denotano disprezzo nei confronti di quel gruppo a causa della sua connotazione razziale, etnica, religiosa, culturale o di genere. Estendendo il significato, si può ricomprendere qualsiasi atto configurante un’istanza di comunicazione espressiva, tra cui ad esempio l’ostentazione di particolari simboli, o il tenere un comportamento comunicativo che veicoli, in maniera non verbale, un messaggio discriminatorio. A complicare ulteriormente la nozione di linguaggio dell’odio contribuisce il suo corrente riferimento sia ai discorsi che contengono e/o esprimono i sentimenti di disprezzo del locutore verso certe categorie di persone, sia a quelli che vengono giudicati “odiosi” da chi ascolta, nel senso di deplorevoli e spregevoli, anche indipendentemente dallo stato mentale ed emotivo e dalle intenzioni comunicative di chi li ha espressi. Si pensi al tale che dica che gli omosessuali sono persone malate provando per essi una genuina compassione, a quello che affermi che alle donne “piace esser prese con la forza” pur avendo tutt’altro che in odio il genere femminile. Inoltre, negli ultimi anni i problemi maggiori sono determinati da quelle forme di discorso razzista che non producono un danno diretto, ma conseguenze più sottili e indirette.
A questo proposito, un argomento ricorrente è che in questi casi non verrebbe prodotto un danno, ma qualcosa di più inconsistente, come un’offesa, una forma di fastidio o di disgusto, una reazione indignata derivante dalla consapevolezza che esistono opinioni diverse ed eventualmente repellente, asserendo, quindi, che si tratta di una legittima manifestazione della libertà del pensiero. Tutto ciò ha una strategia ben precisa: il danno rappresenta una lesione d’interesse verso cui è giustificata la risposta del diritto, l’offesa, invece, determina una serie di stati mentali a cui però non è possibile applicare una sanzione. Far giungere quotidianamente il proprio messaggio d’odio, non punibile perché offensivo e non dannoso, determina due risultati: la sicurezza di non essere perseguiti giuridicamente e la garanzia che gli effetti di quelle parole si radichino nelle persone che credono di esprimere semplicemente la propria opinione.
L’effetto sociale del linguaggio dell’odio porta gli individui colpiti a sentirsi isolati in un ambiente sempre più ostile o quantomeno di diffidenza nei loro confronti, ponendoli in una situazione più faticosa affinché la loro voce possa essere ascoltata e presa sul serio nell’arena pubblica. Non solo, ma in un contesto del genere essi sono indotti al silenzio per paura che agli seguano aggressioni fisiche.
Attualmente il linguaggio d’odio risulta essere uno dei fenomeni maggiormente problematici soprattutto perché non circoscritto, dal momento che l’utilizzo costante dei social media e dei social network permette a tutti di esprimere tutto generando una difficoltà nella distinzione tra insulto e opinione costruttiva. Dinanzi a ciò si vorrebbe che il diritto facesse qualcosa al riguardo. Ed ecco il ddl “Zan”. Tuttavia, la soluzione giuridica porta alcuni a gridare alla limitazione di un bene prezioso come la libertà di espressione. I casi che sicuramente meritano una repressione giuridica sono quelli in cui il discorso d’odio si attua tramite insulti diretti, o comunque con condotte comunicative che hanno come conseguenza atti di. Ma l’intervento giuridico non ha solo una forma repressiva e sanzionatoria. La sanzione potrebbe (il condizionale è d’obbligo) solo limitare e gestire il sintomo. Norberto Bobbio, infatti, parlava della “funzione “promozionale” del diritto: le campagne di sensibilizzazione, lo studio dettagliato della storia e dell’educazione civica, una politica dell’inclusione. Strumenti, dunque, che permetterebbero di combattere dal principio questo fenomeno che si alimenta primariamente dell’indifferenza di molti. “Perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore”.