Considerazioni personali sulla poesia di Kenneth Patchen (di Davide Morelli)

Considerazioni personali sulla poesia di Kenneth Patchen (di Davide Morelli)
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Kenneth Patchen è stato un poeta americano, nato nel 1911 e morto nel 1972. Interruppe gli studi universitari perché versava  in precarie condizioni economiche. Fece lavori saltuari. Negli ultimi anni della sua vita fu disabile. Fu il poeta preferito di Jim Morrison. I suoi versi sono piaciuti anche a Henry Miller. Ho conosciuto Patchen leggendo "Lezioni private di Vittorio Sgarbi". È un peccato che ora le sue poesie in Italia siano quasi introvabili e non vengano pubblicate nuovamente. Avendo ispirato molti poeti americani ed essendo considerato un antesignano della Beat Generation i suoi versi si trovano però in molte antologie di poesia americana contemporanea.  Nel web si trovano tradotte in italiano ma spesso senza testo originale: senza di esso o senza delle note critiche non si può capire totalmente le proprietà fonicoritmiche e la metrica - diranno alcuni - ma è sempre meglio di niente, carissimi (controbatto io). È vero che non avendo testo a fronte non si capisce pienamente il gioco di rime di Bukowski, ma alle volte basta andare alla sostanza. Molti oggi comunque usano l'espressione "non in mio nome", non sapendo che a coniarla fu Ferlinghetti, decenni prima ispirato da un Patchen pacifista antelitteram. Si pensi solo che il poeta fu inviso ad alcuni perché non voleva che l'America partecipasse alla seconda guerra mondiale.  Ancora oggi le sue poesie suscitano in me molti ricordi di gioventù.  Mi viene in mente quando avevo le dita ingiallite perennemente dalla nicotina (ho smesso di fumare da anni).  Sognavo di diventare poeta, ma i miei tentativi erano solitari senza riscontri. Di tanto in tanto facevo leggere le mie cose a pochissimi amici fidati. Personalmente ho conosciuto alcune poesie di Patchen nell'anno in cui facevo l'obiettore in un collegio di preti. Mi sentivo solo, incompreso nella bassa padana, lontano da casa. Mi allietava solo la buona poesia e la buona musica. Niente altro. I miei rapporti con il direttore del collegio non erano idilliaci. Io ero poco più di un ragazzo. Lui aveva una mentalità di altri tempi. Lo scontro sembrava inevitabile talvolta. Per gli alunni del collegio ero solo un terrone da disprezzare e da far ammattire. C'erano alcune somiglianze con la prima poesia di Patchen che vi propongo: nel mio caso anche il collegio si trovava all'angolo della via, una via fiancheggiata da entrambi i lati da dei platani. Allora mi trovavo in sintonia con questa poesia perché sembrava corrispondere perfettamente alla mia situazione ("E comunque non siamo mai stati niente; neanche soldati"). Leggevo e rileggevo questa poesia che consideravo perfetta, dato che sembrava che qualcuno l'avesse scritta per me, sapendo tutto di me. Per dirla in termini più poetici dalle sue liriche scaturivano in me delle risonanze. Avevo messo l'orecchietta a quella pagina, ma sapevo il numero della pagina a memoria. Ci sono persone che si sono convertite al cristianesimo perché hanno trovato il loro nome nella Bibbia. Io mi sono versato nella poesia contemporanea perché quella poesia sembrava raccontare la mia storia. Pensavo allora che questi versi racchiudessero il senso della mia vita. Un aspetto molto originale di questa lirica era allora secondo me che soltanto "le stelle fredde e le puttane" guardassero  l'autore: questa era l'espressione più straniante, il vero rovesciamento di prospettiva, il vero capovolgimento di fronte, dato che gli uomini spesso fanno il contrario, guardando stelle e prostitute. Il componimento finiva tra l'altro con lo sguardo impersonale delle prostitute. Infine nel componimento di Patchen il poeta non mostra alcuna voglia di rivalsa, di affermazione. Sembra invece una persona aperta al mondo ma che non si fa abbindolare dalla smania di successo e dalla corsa all'oro. Un'altra poesia immaginifica scoperta da giovane è stata "Tabaccheria" di Pessoa. Anche in quei versi il poeta portoghese dichiara di non essere niente e che non sarà mai niente. Pessoa osserva una tabaccheria vicina e riflette. Sa bene che i suoi versi moriranno un giorno come la lingua in cui l'ha scritti. Ma mentre riflette sulla caducità del tutto ecco che riconosce un uomo, suo conoscente, ovvero l'Esteves, che lui definisce "senza metafisica ". Anche Pessoa, seppur in modo più cerebrale e complesso, sembrava parlare proprio a me. Ritornando a Patchen, solo adesso capisco che allora ero in sintonia con questi versi solo perché ero depresso in quel periodo. In realtà oggi la mia condizione esistenziale si avvicina molto di più a quella di Patchen. Non ho più soldi per viaggiare, per cui anche per me valgono i versi "Da fare, non c’è niente; da andare, in nessun posto; niente gente". Tutto alla mia età è stato fatto. Non c'è niente che possa cambiare la mia vita. A venti anni si ha la vita davanti e tutto è da fare. Allo stesso modo nella maturità ci si scopre abitudinari, stanziali e non si ha più voglia di viaggiare, di conoscere. Ci si accontenta dei soliti luoghi, della solita routine, convinti che quello che c'era da fare, da vivere, da vedere è stato fatto, vissuto, visto. Si ha meno voglia di novità.  Solo oggi capisco il senso imminente della fine che aveva Patchen. Capisco bene anche quel verso "riusciamo a mantenerci un'aria giovanile". A una certa età l'importante per molti è non dimostrare gli anni che passano. Per quanto io accetti con una certa serenità gli anni devo ammettere che uso dei piccoli accorgimenti per sembrare meno vecchio. Ad esempio mi taglio spesso i capelli e mi faccio spesso la barba perché non si vedono capelli e peli bianchi. Ciò che mi ha sempre stupito di questa poesia, riletta mille volte in vari periodi della mia vita, è che Patchen sembrava sapere tutta la verità su di me. Un'altra cosa che mi stupisce è la  verticalità delle poesie di Patchen, che sono semplici, eloquenti, dirette, incisive quando molti altri girano a vuoto,  poi perdono il filo e con esso il senso della vita, a forza di voler essere intellettuali o oracolari.  La solitudine è espressa con un'immagine chiara ed efficace: è un coltello sporco puntato alla gola. Un'altra cosa altrettanto realistica e sincera di Patchen: per lui il lettore non è suo fratello (come Baudelaire) o un suo amico (come vorrebbe Guccini) ma un socio e con i soci per l'appunto si condividono molte cose, anche le perdite e lo stesso fallimento. Nel caso specifico il poeta condivide il fallimento umano. Ho sempre considerato Patchen proprio per l'umanità presente nei suoi versi un fratello maggiore, talvolta un compagno di viaggio con cui fare un tratto di strada assieme. Non a caso a più riprese ho riletto i suoi versi.





COLLEGE ALL'ANGOLO DELLA VIA

L’anno venturo ci ricoprirà l’erba della tomba.

Adesso stiamo verticali, e ridiamo;

lumando le ragazze di passaggio;

puntando su cavalli bolsi; trincando gin scadente.

Da fare, non c’è niente; da andare, in nessun posto; niente gente.


L’anno scorso era un anno fa; nient’altro.

Non eravamo più giovani allora; né ora siamo invecchiati.


Riusciamo a mantenerci un’aria giovanile;

dietro le facce non sentiamo niente, in nessun modo.

Probabilmente non saremo davvero morti quando moriamo.

E comunque non siamo mai stati niente; neanche soldati.


Noi siamo gli insultati, fratello, i figli desolati.

Sonnambuli per una terra buia e terribile,

dove la solitudine è un coltello sporco alla gola.

Stelle fredde ci guardano, socio

Stelle fredde e le puttane



Patchen è stato un poeta surrealista, per alcuni  all'avanguardia ma anche esistenziale e metafisico;  lo trovo concreto, pragmatico, realista e allo stesso tempo spirituale, cosmico, universale. Potremmo affermare che subisce inizialmente gli influssi di Whitman per approdare ad una tristezza, ad un pessimismo che sembrano non avere precedenti tra gli autori della sua generazione. In Patchen è presente un vitalismo molto particolare e molto disperato. Per il poeta non c'è niente per cui essere felici, eppure la vita sa regalare degli istanti di grazia. In Patchen si avverte il senso del dramma che sfocia in tragedia più di molti altri scrittori americani del suo tempo. Patchen descrive il vero, come i cineasti della Nouvelle Vague, senza inganni né retorica.  Viene messa in scena la vita in tutti gli aspetti, sia quelli più crudi che quelli più esaltanti.  Il  poeta  è sempre con gli altri, si sente parte di un tutto, è in mezzo alla gente, fa parte della gente, non si rinchiude ieraticamente in una torre eburnea, non si ritira dal mondo, anzi rivendica a pieno diritto di far parte del mondo. In quest'altra poesia apre con la follia del mondo, dell'epoca, del cosiddetto secolo breve. Finisce con "una putrida palude di enormi tombe sghembe": un'immagine nefasta ma che esprime bene la desolazione, il deserto, la morte prima di tutto nell'animo. Le tombe poi sono sghembe perché nella palude non si salvano neanche i morti e il culto dei morti.  Il poeta si differenzia dai compagni della Beat Generation sia per non provare alcun senso di benessere interiore duraturo che per la condanna decisa all'uso delle droghe, prese da diversi per scardinare le porte della percezione. Ma Patchen non è uno che ama la follia, come facevano molti retoricamente negli anni '70, criticati da Gaber in "Quando è moda è moda", canzone bella ma per certi versi datata. Piuttosto l'accetta a malincuore con umana rassegnazione. Il poeta accetta l'irrazionalità e l'assurdità del sistema, in cui come scriveva Tiziano Terzani molti si ammazzano di lavoro per comprare cose inutili e arricchire a dismisura pochi. Molti sono gli sfruttati. Ci sono inoltre gli Infelici Molti di Elsa Morante,  tanto per restare in Italia.  Patchen non è mai incomprensibile. Ci sono poeti indecifrabili, sibillini. Ci sono alcuni così enigmatici da essere di  dubbia interpretazione e altri che possono essere soggetti a svariate interpretazioni. Il nostro invece non può che essere interpretato in un solo modo: quello più accessibile e più nitido. Tutto in Patchen converge verso il senso più comune, ma la conoscenza dell'umanità e del mondo è impareggiabile,  propria di chi ha visto, vissuto,  capito molto. Alcuni possono pure affermare che i poeti della Beat Generation dimostrano di avere meno talento, dimostrano di essere meno intellettuali dei nostri. Ma non si tiene conto di una diversa storia,  di un diverso contesto, di un diverso modo di intendere il mondo e di approcciare la vita, che ha portato a uno stile, a un linguaggio poetico molto differente in tutti i poeti americani, che anche quando sono laureati nelle migliori università fanno di tutto per non apparire letterati. Bisogna pensare poi che negli anni in cui è stata scritta pochi come lui si discostavano dall'american way of life. Pochi nuotavano controcorrente. I più erano conformisti in tutto e per tutto. La stessa Fernanda Pivano, che conosceva bene gli americani,  disse che solo i poeti della Beat Generation potevano fare la rivoluzione e cambiare veramente le cose, ma che neanche loro ci riuscirono. Eppure, per dirla alla Patchen, i poeti come lui conoscevano bene "lo stato della nazione". E allora perché non ci riuscirono? Sarebbe bastato così poco. Ci sarebbe voluto così poco. Come scriveva il poeta americano: "Ci vorrebbe poco per essere liberi./ Che nessun uomo viva a spese di un altro./ Perché nessun uomo può possedere /quello che appartiene a tutti./ Perché nessun uomo può uccidere/ quello che tutti devono usare./ Perché nessun uomo può mentire/ quando tutti sono traditi./ Perché nessun uomo può odiare/ quando tutti sono odiati./ So che le forme si apriranno./ Volerà chi vola e canterà chi canta./ Perché il solo potere dell'uomo è nel bene". Forse è mancato il bene. Forse è mancata la pietà perché come fa dire Shakespeare al suo Enrico IV a chi afferma che anche gi animali provano pietà,  "io non sono un animale e non la provo". Forse Patchen in alcune cose era un americano come gli altri e in altre invece completamente diverso. Forse non ebbe la forza di essere totalmente diverso. Forse non seppe ribellarsi fino in fondo perché onestamente la maggioranza imponeva la sua forza, esercitava la sua pressione, anche nei modi più indebiti.


ACCETTIAMO LA FOLLIA

Accettiamo la follia, Oh uomini

della mia generazione. Seguiamo

le tracce di quest'epoca massacrata:

guardiamola trascinarsi dentro la scura terra del Tempo

nella casa chiusa dell'eternità

col latrato del morente

col viso che indossa cose morte -

non diciamo mai



volevamo di più; cercavamo di trovare

una porta aperta, un estremo atto d'amore,

che trasformasse la crudele oscurità del giorno;

ma

trovammo inferno e nebbia diffusi

sulla terra, e nella testa

una putrida palude di enormi tombe sghembe.




Chiudiamo con una poesia di Patchen più rosea e con delle venature di romanticismo. Qui il male del mondo e degli uomini viene messo da parte in nome dell'amore.  Qui sono le luci della città ammiccanti con le loro insegne che promettono felicità ingannevoli. Il poeta immortala gli attimi veramente felici di una sera come altre. Tutto è comune. Il bozzetto non lascia scampo: non c'è niente di nuovo in quella sera, apparentemente noiosa. Spiccano però dal grigiore quotidiano di questo film banale solo gli attori, che riescono a essere "meravigliosi". Patchen ci vuol forse dire che si può affermare la propria eccezionalità anche nello squallore di una vita piena di stenti e difficoltà.  Ma forse è la vita stessa, anche quella più fallimentare o più faticosa, a affermare il suo carattere di irripetibilità e di fronte a questo spettacolo non resta che continuare a meravigliarsi. Forse è l'amore che salva, anche quello che sembra più frugale e consumato in fretta. Questa lirica molto convincente mi ricorda quello che dichiarò il cantautore e poeta livornese Piero Ciampi in una intervista, ovvero che per essere felice gli sarebbe bastato un taxi, fare l'amore con la donna giusta,  una bottiglia di vino, due uova al tegamino. Molto probabilmente Piero Ciampi puntava molto sulla singolarità della persona e del momento felice più che sull'aspetto materiale. In fondo anche l'amore più terreno e comune tra persone qualsiasi può essere la porta al paradiso, beninteso terrestre. Come Piero Ciampi anche Patchen tratta ogni aspetto dell'amore, sa coniugare carnalità e spiritualità. Non a caso il poeta americano aveva anche scritto un romanzo intitolato "Memorie si un pornografico timido", tradotto da Luciano Bianciardi,  l'autore de "La vita agra". Per la critica il vero capolavoro è il suo romanzo. Io però preferisco le sue poesie, forse perché sono allo stesso tempo un ricordo di gioventù ed evocano molti ricordi di gioventù.  Ogni suo verso mi porta indietro nel tempo, mi fa compiere un viaggio a ritroso. Forse è grazie a sere felici come questa descritta che Patchen decise di stabilirsi con la moglie a Palo Alto, dopo aver viaggiato a lungo per tutta l'America. A ogni modo il poeta dopo aver perlustrato a fondo ogni inferno dell'animo e del mondo apre alla speranza.  Oppure ancora meglio: ha trovato "una porta aperta, un estremo atto d'amore" di cui sopra. Tutto sembra scorrere inesorabile verso il peggio, ma nel finale le cose prendono tutt'altra piega, tutto si ribalta.  A volte basta essere "salvi fino a domani" in una vita contrassegnata dalla precarietà esistenziale e basta "una cena semplice". L'importante non è avere molto, ma sapersi accontentare di quel poco che si ha e tutte le metafisiche, tutti i teoremi, tutte le escatologie di fronte a questa prassi di vita così efficace crollano come castelli di carte dopo il soffio impertinente di un bambino. Patchen descrive in modo semplice la semplicità della vita, ma secondo un vecchio adagio semplice non è facile, anzi descrivere una cosa semplice con uno stile semplice è quanto mai un compito ardimentoso, sfaccettato, complesso all'ennesima potenza.


LA VENTITREESIMA STRADA PORTA AL PARADISO

Stai vicino alla finestra mentre le luci ammiccano

lungo la strada.

Da qualche parte un tram, che porta

a casa commesse e impiegati, passa sferragliando in questa

sera del Sabbath.

Un gatto nel cortile piange

perché trova il bidone dell’immondizia chiuso;

gli strilloni iniziano il loro giro che trasforma omicidi in penny.

Siamo chiusi in casa, per un po’ al sicuro, salvi

fino a domani.

Ti sfili il vestito, ti arrotoli le calze, attenta a non smagliarle.

Nuda ora,

soffice luce su soffice carne,

ti fermi un attimo; ti volti di fronte a me –

sorridi come sanno fare solo le donne

che hanno giaciuto a lungo con il loro amante

uscendone più vergini.

La nostra cena è semplice, ma noi siamo meravigliosi.



Traduzione delle poesie di Franco De Poli

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