L’attività amministrativa mediante il ricorso al diritto privato: ammissibilità e limiti

L’attività amministrativa mediante il ricorso al diritto privato: ammissibilità e limiti
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Premessi brevi cenni sulla natura dell’attività amministrativa, si andrà ad analizzare la possibilità degli enti pubblici di ricorrere alla contrattazione privatistica.

Le attività giuridiche poste in essere dalla pubblica amministrazione si differenziano in attività di diritto pubblico ed attività di diritto privato. Le prime caratterizzano l’amministrazione quale soggetto pubblico e pertanto si manifestano nel tipico modulo di esercizio del potere essendo soggette alla disciplina generale di diritto amministrativo. Le seconde invece si avvalgono di strumenti di diritto comune ovvero di diritto privato.

L’ordinamento riconosce allo Stato e agli enti pubblici una capacità giuridica generale di diritto privato, ovvero la possibilità di addivenire alla conclusione di determinati negozi, salve le restrizioni legali o statutarie. Queste ultime si distinguono in naturali, poiché derivanti dalla natura giuridica degli enti pubblici, e in giuridiche, stanti gli obiettivi specifici che i medesimi enti devono raggiungere tramite la contrattazione. Si fanno rientrare nei limiti naturali dell’attività amministrativa tanto quei negozi che individuano la persona fisica come presupposto inevitabile, quanto quelli inconciliabili con la natura pubblicistica delle pubbliche amministrazioni (per esempio gli atti di liberalità). I limiti giuridici invece presuppongono la presenza di norme giuridiche che disciplinino l’attività e che, quindi, prevedano le finalità istituzionali dell’ente, i relativi stanziamenti in bilancio, nonché i limiti interni e dunque le eccezioni alle norme privatistiche.

Se in passato l’agire iure privatorum della pubblica amministrazione costituiva un’eccezione, recentemente si assiste ad un’inversione di rotta sostenendo che le pubbliche amministrazioni operano secondo la disciplina privatistica, salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti. La pubblica amministrazione diventa, quindi, titolare di situazioni giuridiche soggettive attive e passive al pari dei soggetti privati che pongono in essere negozi di diritto comune. Diversamente dai privati, però, i negozi dalla stessa conclusi devono risultare compatibili con la sua natura pubblicistica, poiché la relativa attività non può mai essere svincolata dal raggiungimento di pubblici interessi.

La capacità di diritto privato funzionale agli scopi istituzionali, delle pubbliche amministrazioni, risulta per esempio dall’art. 11 della l. 241/1990, che prevedendo la possibilità di addivenire ad accordi integrativi o sostitutivi di provvedimenti amministrativi, con loro conseguente sottoposizione alla disciplina dei contratti, parifica l’attività privatistica a quella pubblicistica. La necessità degli enti pubblici di ricorrere alla disciplina privatistica è certamente frutto dell’evoluzione della società, dell’economia e delle istituzioni stesse, tant’è chela diffusione della cdnegoziabilità della funzione amministrativa, infatti, ha indotto il legislatore ad intervenire per regolare la situazione, dapprima con la disciplina degli accordi amministrativi sopra menzionati (art. 11 della L. n. 241/1990), e poi con l’introduzione del principio di cui all'art. 1, comma I bis, della L. n. 241/1990 (comma introdotto dall'art. 1 della L. n. 15/2005). La fondamentale importanza di quest’ultima norma risiede nel fatto di aver riconosciuto normativamente l’autonomia negoziale delle pubbliche amministrazioni, introducendo la possibilità per queste ultime di ricorrere non più solo ai mezzi di diritto pubblico, bensì anche agli strumenti, modalità e forme del diritto privato.

La Pubblica Amministrazione dunque non è più costretta a perseguire l’interesse pubblico avviando la procedura amministrativa che conduce all’adozione del provvedimento unilaterale, espressione di potere autoritativo pubblico, ma potrà soddisfarlo istituendo rapporti privatistici con i terzi interessati.

Si sottolinea che l’ente pubblico non ha l’obbligo di ricorrere agli strumenti negoziali ove non eserciti il potere autoritativo, ma può farlo, essendo questa una sua facoltà. In breve, l’art. 1, c. I bis, l. 241/90 avrebbe introdotto in via generale la possibilità della pubblica amministrazione di servirsi delle forme e dei mezzi di diritto comune nel perseguimento dei pubblici interessi in alternativa al provvedimento, strumento amministrativo tradizionale.

Dunque, l’agire secondo il diritto pubblico dev’essere previsto da espressa disposizione normativa; viceversa, gli enti pubblici agiranno secondo il diritto privato, ovvero in virtù della capacità giuridica generale ad essi riconosciuta, sempre se quest’ultima modalità d’azione risulti compatibile con i pubblici interessi che si intendono soddisfare. Si ricorda, infatti, che l’attività amministrativa costituisce un’attività non libera ma vincolata al raggiungimento di determinati scopi pubblici. E proprio in tale direzione pare collocarsi l’espressione “nell’adozione di atti di natura non autoritativa [la pubblica amministrazione] agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga altrimenti”del comma I bis dell’art. 1 della legge 241/1990. Così, rimangono assorbite dalla clausola di riserva le attività amministrative attraverso le quali si intendono raggiungere effetti imperativi nella sfera giuridica soggettiva di terzi e, dunque, nelle quali l’amministrazione ha la necessità di esercitare la propria autorità.

L’ambito entro cui la pubblica amministrazione ricorre agli strumenti privatistici può individuarsi facendo riferimento ai casi in cui essa può sostituire l’atto amministrativo con il negozio, quale strumento per esercitare la propria attività giuridica, per esempio non ricorrendo all’espropriazione ma all’acquisto del bene, oppure locando la res con un contratto di locazione, vero e proprio contratto di diritto privato, anziché avviare il relativo procedimento di concessione.

Ancora, si pensi alla possibilità dell’ente pubblico di avviare delle trattative con il privato secondo la disciplina del codice civile anziché avviare il procedimento di aggiudicazione. Ferma la possibilità della pubblica amministrazione di ricorrere al diritto comune, non è possibile esimersi dal considerare tutti quei principi che regolano l’attività amministrativa e che devono essere rispettati dall’esercizio di quest’ultima. Infatti, le pubbliche amministrazioni sono soggette ai principi del buon andamento e dell’imparzialità, quest’ultimo realizzato nel nostro sistema tramite il procedimento amministrativo di aggiudicazione che si situa in fase antecedente rispetto alla stipulazione del contratto. Pertanto, il ricorso alla contrattazione da parte della pubblica amministrazione risente inevitabilmente dell’esercizio del potere amministrativo. Il contratto dunque sarà sottoposto ad una disciplina in parte derogatoria rispetto a quella privatistica tanto in riferimento al procedimento di aggiudicazione, quanto alla procedura di controllo e da ultimo alla fase di esecuzione. Si pensi, infatti, al contenuto del contratto che riproduce sostanzialmente quanto preannunciato nel bando e che è altresì l’oggetto sul quale è avvenuta l’aggiudicazione; al controllo preventivo di legittimità o all’approvazione ex art. 11 Cod.contr.pubbl. cui devono sottostare i contratti una volta stipulati, con l’effetto di sospenderne l’efficacia; o ancora ai poteri della pubblica amministrazione nei confronti del contraente relativamente all’esecuzione della prestazione oggetto del contratto.

La disposizione di cui all’art. 1 c. I bis l. 241/1990 allora diviene operativa nelle ipotesi in cui la pubblica amministrazione agisca costituendo rapporti con soggetti terzi non disciplinati da alcuna norma di diritto pubblico. Ciò si verifica, per esempio, nel caso in cui l’ente pubblico deve instaurare rapporti negoziali relativamente ad un’opera o ad un bene pubblico, senza che tali rapporti abbiano una diretta correlazione con la destinazione dell’opera o del bene stessi e dunque non siano oggetto delle norme pubblicistiche relative all’opera o al bene. Lo stesso accade nei rapporti di godimento e di uso di beni demaniali, parimenti al di fuori della loro precisa destinazione, di esercizi commerciali, di ristorazione o altrimenti serventi una pubblica amministrazione, ma non direttamente funzionali alla sua primaria destinazione e non disciplinati dalla relativa normativa.

L’ambito operativo dell’art. 1 c. I bis, comprende anche le ipotesi in cui lo strumento autoritativo può essere sostituito da quello negoziale, poiché vi è il consenso del privato nella cui sfera soggettiva l’effetto è volto a prodursi: la vendita anziché l’espropriazione, l’affitto al posto della requisizione, la costituzione negoziale di servitù in luogo della costituzione coattiva, etc. L’introduzione della disposizione in esame, allora, determina la prevalenza dello strumento negoziale ovvero la necessità di privilegiarlo, nei casi in cui sia possibile, piuttosto di azionare il procedimento autoritativo. Tutto ciò semplicemente esercitando la capacità negoziale, senza altri vincoli di diritto pubblico (salvo quelli di bilancio).

I contratti di diritto privato stipulati dalla pubblica amministrazione trovano la loro fonte nelle disposizioni del codice civile ed in particolar modo nell’art. 1321 c.c., nella legge sulla contabilità generale dello Stato (r.d. 2440/1923) e nel regolamento di esecuzione (r.d. 827/1924), altresì nelle norme in tema di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi (l. 241/1990).

Sebbene la pubblica amministrazione si trovi su un piano di parità con il contraente privato, la sua personalità giuridica e l’interesse pubblico da soddisfare mediante l’attività privatistica, incidono sul procedimento di formazione della sua volontà contrattuale. Infatti, la giurisprudenza amministrativa sostiene che tale procedimento non operi totalmente nell’ambito del diritto privato, bensì si snodi in due serie di atti differenti: la serie negoziale che consiste in atti privatistici e quella procedimentale che, invece, è composta da atti amministrativi, come per esempio la delibera a contrarre, l’approvazione (o il diniego e la revoca della stessa), la registrazione ed il visto (o il diniego di questi) (cfr C Stato, sez. VI, 17.12.2007, n. 6471).

Emerge, dunque, che l’accordo delle parti ex art. 1325 c.c. e la formazione del negozio risultano assoggettati ad un processo di stipulazione più dettagliato, tant’è che l’attività contrattuale della pubblica amministrazione viene definita dalla dottrina quale fattispecie unitaria e complessa, ovvero composta da una serie di atti giuridici distinti.

Sono due allora le fasi attraverso le quali prende forma la volontà contrattuale dell’ente pubblico ovvero una prima fase cd procedimentale in cui lo stesso decide di concludere il contratto tramite deliberazione del competente organo e una seconda fase cd negoziale in cui esterna tale decisione. La prima fase, manifestando la soggezione della pubblica amministrazione al principio di legalità, assume rilievo pubblicistico, mentre la seconda delinea la relazione tra privato e pubblico. Queste due fasi sono distinte ed indipendenti sotto il profilo della validità degli atti, seppur evidentemente connesse dato il collegamento oggettivo di questi ultimi. La Suprema Corte delinea nettamente la linea di demarcazione tra la fase deliberativa della volontà contrattuale dell’amministrazione da quella negoziale il cui oggetto coincide con la successiva stipulazione del contratto. Infatti, mentre la prima rappresenta una decisione che per il soggetto privato consiste nella formazione dell’intera volontà, la seconda compete solo all’organo pubblico e consiste nel vincolo con il contraente, salvi i successivi eventuali controlli o approvazioni (Cass. 10.10.2007 n. 21265). La diversità delle fasi si evince anche dal fatto che la delibera a contrarre non produce effetti nei confronti dei terzi, poiché atto propedeutico al successivo contratto, mentre la stipulazione di quest’ultimo deve rivestire forma scritta e dev’essere sottoscritta da tutte le parti (Cass. Civ., Sez. Lav., 2.11.1998 n. 10956).

Avviandoci alla conclusione, si sottolinea che l’attività amministrativa, anche quando si manifesta sotto forma di esercizio di autonomia privata, deve sempre rispettare i principi costituzionali di legalità, imparzialità, buon andamento, e di tutela del terzo, ed altresì quelli normativi che regolano l’agire amministrativo. Ciò determina, come sopra detto, un’autonomia negoziale limitata e funzionale, poiché le finalità dell’azione amministrativa sono vincolate ovvero non libere ma individuate dalla legge. Esse non sono, dunque, nella disponibilità degli enti pubblici e devono essere curate alla luce dei criteri della doverosità e continuità, senza incorrere in violazioni del principio di eguaglianza e senza che l’utilizzo dello strumento privatistico possa indirettamente circoscrivere il diritto dei terzi che agiscono a tutela dei propri interessi legittimi.

La scelta dell’amministrazione di agire ricorrendo alla contrattualistica privata determina, dunque, una “rinuncia alla funzione” ma non all’“agire funzionale” (Benvenuti) quale necessario raggiungimento delle finalità istituzionali predeterminate dalla legge. In altre parole, anche quando l’interesse pubblico è realizzato mediante l’esercizio di poteri espressione dell’autonomia negoziale, vi dev’essere piena e necessaria corrispondenza del negozio o del contratto al pubblico interesse individuato dalla normativa. Anche se l’attività amministrativa, in alcune occasioni, diviene attività di diritto privato, a rivestire la posizione primaria è sempre il pubblico interesse da soddisfare ed è proprio quest’ultimo a condizionare la validità del negozio. In dottrina si è infatti affermata la nozione di attività privata di interesse pubblico. È sotto questa angolazione che gli strumenti e gli istituti di diritto privato richiamati indirettamente dall’art. 1, c. I bis, l. 241/90, devono ritenersi prescritti dal legislatore quali possibili mezzi dell’azione pubblica.

Concludendo, l’evoluzione della società e l’introduzione del c. I bis dell’art. 1 della l. 241/90 hanno condotto al riconoscimento dell’autonomia negoziale della pubblica amministrazione, la quale quando agisce al di fuori dell’ambito pubblicistico viene sottoposta totalmente ai principi di diritto comune sul piano della disciplina, e dunque la sua attività contrattuale sarò oggetto di sindacato di meritevolezza degli interessi perseguiti ex art. 1322, comma II, c.c.. Si ricorda però che l’ente pubblico svolge un’attività vincolata dal perseguimento di determinati interessi pubblici prescritti dalla legge e, pertanto, la disciplina privatistica alla stessa applicata potrà in alcune ipotesi subire delle deroghe. Ad ogni modo, la pubblica amministrazione dovrà sempre motivare tanto le ragioni di pubblico interesse fondanti la scelta del mezzo negoziale anziché quello provvedimentale, quanto la concreta soddisfazione del pubblico interesse mediante l’esercizio della capacità negoziale privata.

Mancassola Martina Maria

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