IL TIRANNO IN DECADENZA
Luciano di Samosata, nei Dialoghi dei Morti, scritti nel II secolo d.C., immagina trenta dialoghi tra dei, personaggi dell'epica e del mito, ambientati nell'oltretomba. L'intento è satirico. Analizzando meglio le parole utilizzate dai personaggi e l'atmosfera troviamo addirittura uno scopo filosofico e riflessivo, come spesso accade andando al di là delle apparenze giocose della satira. Essa serve anzi tutto come spunto di riflessione critica.
Nei Dialoghi dei Morti troviamo un concetto assai caro ai greci antichi, la morte, la caducità. La gloria può essere raggiunta in vita, la ricchezza, ma ogni cosa è soggetta al mutare degli eventi e del Fato, la divinità Tyke.
La tragedia offre esempi a non finire, e proprio dalla tragedia Luciano prende alcuni suoi personaggi mitici, ribaltandone la solennità, mostrandone il lato più umano e meno eroico secondo i canoni della Grecia classica.
Sono passati molti secoli infatti dal “kalòs kai agathòs” dell'epica di Omero, e i canoni letterari ed estetici di Luciano di Samosata si distaccano molto dalla Grecia delle poleis e di Solone come si è soliti pensare in un primo sguardo di riferimento alla Grecia antica.
Luciano è un autore fantastico. “Storia vera”incarna topoi letterari che saranno poi ripresi da Ariosto – Astolfo sulla Luna - e in buona parte da quella branca di fantasy che si occupa dell'assurdo e dell'avventuroso inteso in senso proprio surreale. Influenza anche Jonathan Swift e i suoi Viaggi di Gulliver.
Nello specifico, i Dialoghi dei Morti mostrano come un grande re, o un personaggio illustre, o un eroe, sia poi poca cosa di fronte all'ineluttabilità della morte.
Alessandro, in uno dei dialoghi a lui dedicati, trovandosi da poco all'Inferno, incontra il filosofo Diogene. Già tra i due vi era stato un precedente incontro quando entrambi erano in vita: Alessandro si recò a visitare il filosofo cinico che viveva mendicando e vivendo in una botte, ma sempre mantenendo un aspetto fiero. Quando Alessandro gli chiese di cosa aveva bisogno, visto che gli appariva come un mendicante, Diogene rispose se il re poteva scostarsi visto che gli faceva ombra e lui voleva essere illuminato dal Sole, ossia dalla luce della sapienza.Questo per dire che non cercava ricchezze materiali, ma bensì interiori, conoscenza, che nell'antichità coincideva con un'intima connessione con quello che l'Idealismo tedesco chiamerà Geist, Spirito, Assoluto, Infinito, o quello che Plotino aveva denominato come l'Uno. Il Sole fuori dalla caverna di Platone.
Diogene si riferisce ad Alessandro chiedendogli come mai fosse morto così giovane e in un modo così inusuale per un guerriero del suo calibro, inoltre era stato dichiarato dall'oracolo di Amon come figlio di Zeus e vi erano dicerie sul fatto che sua madre Olimpiade d'Epiro si fosse accoppiata con un serpente, ossia Dioniso incarnato. In ogni caso era quindi chiaro e palese che Alessandro in vita era considerato il figlio di un dio.
Il giovane conclude dunque che tutto ciò che gli era stato raccontato dagli oracoli fosse falso, essendo morto di malattia o di avvelenamento, e quindi, si rende conto di essere sempre stato un mortale qualunque. Il senso dei Dialoghi dei Morti di Luciano di Samosata è proprio quello di mostrare, tramite il paradosso tipico del genere satirico, un importante e ricorrente concetto tipico della letteratura e dell'ethos greci : il rispetto per il Destino, per il Fato, quindi per la morte stessa. E' un concetto che riecheggia nella cultura greca fin dai tempi dell'Odissea di Omero, quando il protagonista, l'eroe, spesso si abbandona allo sconforto pensando di non tornare mai più a rivedere Itaca. Solo quando si lascia andare completamente alla Tyke, allora Odisseo riesce a tornare a casa, per poi affrontare ancora diverse prove. Vi è nella grecità questa contrapposizione tra rispetto per la Tyke, la Sorte, e quindi per tutto ciò che è divino e trascende la comprensione umana mortale, e la Hybris, ovvero la tracotanza, l'arroganza nei confronti degli dei, il voler porsi al pari di un dio, dimenticandosi della propria natura umana, come per esempio fece Alessandro il Grande.
Anche se è da considerare la ragione strategica e militare dietro all'affermazione dell'oracolo di Amon. L'impero di Persia poteva cadere solo se a farlo capitolare fosse stata qualche potenza titanica, divina, il figlio di Zeus, per l'appunto, Alessandro. La storia è anche fatta di mito. Nell'immaginario collettivo della gente dell'epoca per essere accettato come sovrano Alessandro doveva necessariamente apparire come un dio, essere un dio, non c'erano alternative, al fine di governare un popolo abituato ad essere sottomesso soltanto da un dio Re.
Vi erano quindi ragioni storiche profonde dietro alla profezia dell'oracolo di Amon.
Alla domanda di Diogene se lui ogni tanto si ricordasse di tutte le sue conquiste e di tutti i suoi momenti più belli della vita, Alessandro scoppia in pianto, maledicendo inoltre gli insegnamenti di Aristotele che gli aveva impartito da ragazzo, visto che il filosofo puntava solo a far spiccare la bravura letteraria di Alessandro, frenandolo nei suoi progetti ambiziosi di conquista.Diogene consiglia allora al sempre più sconvolto giovane tiranno decaduto di bere l'acqua del fiume Lete, il fiume infernale della dimenticanza, le anime che ne bevevano le acque scordavano tutti i loro ricordi della vita mortale.
Sempre in maniera satirica, Diogene invita Alessandro a far presto, perchè stanno arrivando nei pressi del fiume anche le anime di Clito il Nero e di Parmenione, entrambi accusati e messi a morte da Alessandro, durante i frequenti scatti d'ira del sovrano, gli storici dicono dati forse da una mania presente in lui fin dalla tenera età, altri a causa delle stregonerie e degli strani rituali della madre, altri ancora a causa dell'abuso di vino e bevande alcoliche miste a oppio e altre piante di natura psicotropa che nell'antichità, anche tra i macedoni, i re e le loro corti erano soliti utilizzare in abbondanza.
La figura del re in decadenza ricorre spesso nella letteratura.
“Piena di scorpioni è la mia mente” - Macbeth, W. Shakespeare
Il connubio tra potere e maledizione viene esplicato in maniera del tutto sublime nella tragedia Macbethdi Shakespeare. La trama e l'atmosfera influenzeranno tutta la letteratura Romantica e di conseguenza anche buona parte della primigenia letteratura fantastica.
Ci troviamo in una cupa Scozia di Basso Medioevo. Le Sorelle Fatali, tre Streghe, ispirate dalla figura delle Norne della mitologia norrena e delle Parche di quella greco romana, decidono che la loro prossima apparizione sarà a Macbeth. Quest'ultimo e Banquo, generali dell'esercito di re Duncan di Scozia, hanno appena sconfitto le forze congiunte di Norvegia e Danimarca, guidate dal ribelle Macdonwald.
Sulla via del ritorno verso i loro castelli, Macbeth e Banquo fanno un'affermazione sull'atmosfera della Scozia, un tempo meteorologico “brutto e bello insieme”, che indica l'ambiguità e lo sguardo sull'oltre dalle quali molte storie weird o fantasy prendono piede, come se qualcosa di sovrannaturale fermasse il tempo e la pioggia e le nubi nere delle brughiere ventose. Da lì a poco, come se i due personaggi avessero intuito cosa sarebbe accaduto, appaiono le tre streghe ispirate al mito delle Norne, le Sorelle Fatali.
Una si rivolge a Macbeth definendolo “il soldato”, un'altra lo chiama “il generale”, e la terza lo chiama “il re”. Le streghe parlano anche a Banquo, che le sfida, sebbene sia intimorito dall'atmosfera magica e straniante della situazione e dall'aspetto terrificante delle tre sorelle. Profetizzano che egli sarà capostipite di una stirpe di re.
Poi le tre streghe svaniscono, lasciando Macbeth e Banquo sgomenti.
Macbeth, convinto dalla moglie e dalla profezia delle streghe, arriverà addirittura a uccidere il suo migliore amico a causa della brama di potere, e diventerà folle, tormentato dalla visione dello spettro di quest'ultimo. Tuttavia, come moltissime profezie e segnali provenienti dall'oltre, da qualcosa di sovrannaturale e umanamente incomprensibile, la stessa apparizione delle Moire, o delle Sorelle Fatali, come sono state riadattate da Shakespeare trasferendo le figure in un'ambientazione medievale, diventa causa di qualcosa d'infausto. Macbeth è causa della sua stessa rovina.
Macbeth presenta una certa ambiguità: la sua sete di potere lo induce al delitto, ma ne prova anche rimorso pur essendo incapace di pentimento.
Il sovrannaturale è presente con apparizioni di spettri, fantasmi, che rappresentano le colpe e le angosce dell'animo umano, nonché dalla presenza, forse reale o forse solo immaginata, delle tre streghe, quali emissarie di un Fato incombente e ineffabile, giustificazione e al tempo stesso ineluttabile sovrano delle sorti degli uomini.
Nella follia sanguinaria Macbeth ha un solo conforto attraverso il contatto con il soprannaturale e, all'inizio del IV atto, egli si reca nuovamente dalle streghe per conoscere il proprio destino. Il responso è solo in apparenza una rassicurazione, in realtà è molto enigmatico, ma Macbeth vi si appiglia con convinzione ed affronta i nemici (V atto) fino al momento in cui scopre il vero significato di quelle oscure profezie.
Tra i vari presagi elencati dalle tre streghe vi era quello che il tiranno sarebbe stato sconfitto solo quando il bosco si sarebbe messo a camminare, e si sarebbe spostato, una cosa che rassomiglia a un paradosso, qualcosa d'impossibile, di conseguenza è come affermare che Macbeth non avrebbe mai conosciuto la sconfitta.
In Inghilterra MacDuff e Malcolm pianificano l'invasione della Scozia. Macbeth, adesso identificato come un tiranno, vede che molti baroni disertano dal suo fianco. Malcolm guida un esercito con MacDuff e Seyward, contro il castello di Dunsinane, fortezza associata al trono di Scozia dove Macbeth risiede. Ai soldati, accampati nel bosco di Birnam, viene ordinato di tagliare i rami degli alberi per mascherare il loro numero. Con ciò si realizza la terza profezia delle streghe: tenendo alti i rami degli alberi, innumerevoli soldati rassomigliano al bosco di Birnam che avanza verso Dunsinane. Alla notizia della morte della moglie (la cui causa non è chiara; si presume che ella si sia suicidata, oppure che sia caduta da una torre in preda a un delirio da sonnambula) e di fronte all'avanzata dell'esercito ribelle, Macbeth pronuncia il famoso monologo ("Domani e domani e domani"), sul senso vacuo della vita e di tutte le azioni che la costellano, vani atti insignificanti che puntano al raggiungimento di obiettivi che non hanno alcun reale valore.
"La vita non è che un'ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla"
Nella letteratura italiana troviamo l'esempio di “Saul” di Vittorio Alfieri. La tragedia narra un episodio biblico e tratta le ultime ore di Saul, nell'accampamento militare di Gelboè durante la guerra contro i Filistei.
Saul incarna l'archetipo del guerriero coraggioso e valoroso, forte, invincibile. Fu voluto come re di Israele e benedetto da Samuele, il sacerdote. Col tempo, però, Saul si allontanò da Dio finendo per compiere diversi atti di empietà. Allora Samuele, su ordine del Signore, consacrò re un umile pastore: Davide. Questi fu chiamato alla corte di Saul per placare con il suo canto l'animo del re, e lì riuscì ad ottenere l'amicizia di Gionata, figlio del re, e la mano della giovane figlia di Saul, Micol.
David generò però una forte invidia nel re, che vide in lui un usurpatore e al tempo stesso vi vide la propria passata giovinezza. David venne perseguitato da Saul e costretto a rifugiarsi in terre dei filistei (e per questo accusato di tradimento).
La vicenda del Saul narra le ultime ore di vita del re e vede il ritorno di David, che da prode guerriero è accorso in aiuto del suo popolo in guerra con i Filistei, pur sapendo bene il rischio che ciò poteva comportare per la sua vita. David è pronto a farsi uccidere dal re, ma prima vuole poter combattere. Saul vedendolo lo vuole uccidere, ma dopo averlo ascoltato si convince a dargli il comando dell'esercito. David ad un certo punto commette però un errore, parlando di “due agnelli” in Israele, e ciò genera il delirio omicida di Saul verso il giovane. Saul poi spiega a Gionata la dura legge del trono, per la quale “il fratello uccide il fratello”. Da questo momento in poi della trama la follia di Saul diventerà sempre più crescente e incontenibile e selvaggia, fino ad arrivare al culmine della tragedia nel quale il re, solennemente, dopo essersi ridestato, nell'ultimo atto, e aver previsto in sogno la morte propria e dei suoi figli, si uccide, l'esercito dei Filistei sta avendo la meglio su quello d'Israele. La figura del tiranno impazzito recupera la sua dignità tramite il gesto tragico del suicidio. Dall'ultima parte del Romanticismo e dal Decadentismo Alfieri eredita questo gusto per il titanico, per la solenne morte di un re, che però gli restituisce il suo onore. Come se l'onore fosse, per un glorioso re dell'antichità, più importante della vita stessa, la morte è qualcosa che toglie, non che restituisce, eppure nella visione tragica di molti autori pare che vi siano cose che vanno oltre la morte stessa, visioni d'immensità, intuizioni d'infinito.
La letteratura fantasy eredita dalla cultura tragica il gusto per il titanismo e per l'estetica eroica ed epica.
Ne “Il Signore degli Anelli”di J.R.R. Tolkien vediamo Grampasso, un ramingo, ultimo ered e della stirpe di Isildur e Elendil, il trentanovesimo, rifiutare per buona parte della trilogia il suo ruolo e fato indissolubile.
Passa i primi anni della sua vita in esilio, vagabondando tra le Terre Selvagge. Dopo aver combattuto nella guerra dell'Anello, viene incoronato re di Gondor e tutti i regni degli uomini. La sua vera identità gli sarà svelata solo all'età di vent'anni da re Elrond, a Gran Burrone, dove Aragorn fu adottato, avendo perso il padre in un inseguimento di orchi nelle terre del Nord insieme ai figli di Elrond.
Quest'ultimo dai frammenti di Narsil, la Lama che fu Spezzata, forgia Andùril, Fiamma dell'Ovest. Aragorn diviene insieme a Gandalf il Grigio il capitano della Compagnia dell'Anello. Viene incoronato col nome di “Elessar”, che significa gemma elfica.
Aragorn non è un sovrano decaduto, bensì fa parte di una linea regale decaduta, di un sangue maledetto. Isildur rifiutò di gettare l'Anello nel Monte Fato, quando ne ebbe l'occasione, e questo fu causa indiretta della sua rovina, e della rovina della Terra di Mezzo tutta. Se Aragorn rappresenta il superamento delle insicurezze e delle paure umane per il conseguimento di un obiettivo ben preciso, con un senso molto umano, ossia proteggere gli Hobbit partiti dalla Contea, Isildur invece raffigura il cuore corruttibile degli esseri umani.
Un animo colto dalla cupidigia e dalla sete di potere, dalla voglia di avere ancora più gloria, ancora più prestigio, ancora più forza. Tolkien, figlio del suo tempo, insegna una lezione d'umiltà al lettore. La gloria autentica, ovvero, il massimo compimento della natura umana, e dell'essenza della Terra di Mezzo, non si raggiunge di certo tramite l'Anello di Sauron, ovvero tramite la forza facile, immediata, brutale, ma attraverso la saggezza e la calma elfica. Un'altra figura interessante dal punto di vista della cupidigia, vista sotto l'aspetto della brama di conoscenza, è quella di Saruman il Bianco. Capo dell'ordine di Gandalf, Saruman si lascia corrompere, alleandosi con il Nemico, dando la stirpe degli uomini per sconfitta e bramando con uno strano luccichio negli occhi, proprio come lo descrive Tolkien, un potere sinistro. La veste, una volta immacolata, rifletteva ora tutti i colori, talvolta assumendo una tonalità, talvolta un'altra, come se l'essenza stessa di Saruman stesse cambiando, velocemente, in qualcosa di sempre più simile al Caos.
Parlando di Caos il tiranno decaduto per eccellenza della letteratura fantastica spada e stregoneria è Elric di Melnibonè di Michael Moorcock, che possiede due spade legate intimamente al Caos del multiverso dell'autore, in contrasto con la Legge. Albino, costretto ad assumere continuamente pozioni per mantenere la sua forza, differente dagli altri Melniboneani per via del suo carattere, troppo sensibile agli occhi dei compatrioti, imperatore di un impero in decadenza da cinquecento anni. Dopo lo scontro con il cugino Yrkoon, Elric lascerà il trono e inizierà a errare per i cosiddetti Regni Giovani, sorti da appena cinque secoli, mentre Melnibonè è un impero millenario.
In Robert E. Howard troviamo una citazione che rende benissimo l'idea del concetto di sovrano che hanno i personaggi creati dall'autore statunitense, troppo liberi per accettare i compromessi della vita regale di corte.
"Quand'ero uomo d'arme suonavano i timballi, il popolo dorava le strade ai miei cavalli. Ora che sono Re, è irto il mio cammino, di perfidi pugnali, veleno nel mio vino."
Nel fantasy troviamo quindi una rappresentazione allegorica delle dinastie e dell'atmosfera dell'Impero Romano, o che si rifanno addirittura ai popoli Egizi o Babilonesi e Sumeri, oppure una rievocazione dei regni del Medioevo e della Guerra dei Cent'Anni tra Francia e Inghilterra, a livello sempre di substrato di fondo, di humus sopra al quale prende vita la storia. Nel fantasy mediterraneo, che sta prendendo piede negli ultimi anni, rifacendosi alle opere primigenie e più simili al classico romanzo d'avventura del genere fantastico, leggiamo proprio di ambientazioni prese da un contesto storico e culturale ben preciso e fuse insieme a miti e leggende del folklore tipico del territorio a cui si fa riferimento.
Un buon esempio di fantasy mediterraneo è il romanzo “La Stirpe di Herakles” di Andrea Gualchierotti, “Rodi – Il Sorriso del Colosso” e “Mediterranea”, tutti editi da Italian Sword & Sorcery Books.
Si tratta di opere che mischiano il fantastico con lo storico, il mito con il vero, richiamando un po' l'essenza vitale stessa dell'uomo antico, che viveva sempre in mezzo a forze titaniche mitologiche, ma anche alla concretezza della vita e delle esperienze quotidiane.
Gli antichi, con la loro peculiare sensibilità, vivevano perennemente in mezzo alla loro medesima cultura, mantenendo un'identità collettiva molto forte e ben marcata.
Il tiranno in decadenza è il simbolo dell'uomo che osa troppa, a causa della sua tracotanza nei confronti degli dei, ma anche nei confronti degli uomini, e per colpa del suo orgoglio, o della sua eccessiva brama di potere, finisce per cadere nelle tenebre. Tuttavia il genere tragico lo decanta ancor oggi, facendosi voce di Dioniso e Apollo insieme, razionalizzando l'irrazionale e addomesticando le visioni e le paure più ataviche della natura umana, come intuì ne “La Nascita della Tragedia” F.W. Nietzsche. Tragedia è addomesticamento del terribile, scrive il filosofo tedesco. Essa ci mostra esempi da non seguire, da non imitare, così come, al contrario, l'epica ci mostra esempi da fare nostri.
Colui che addomestica il terribile è il tragediografo, insieme al pubblico, in un atto collettivo e catartico, quasi sciamanico, vengono evocate forze antiche, energie ataviche, emozioni ancestrali.
Nel fantasy abbiamo lo stesso tipo di coinvolgimento emotivo da parte delle figure più carismatiche. Gli eroi e i re, sebbene decaduti, nella letteratura fantastica non sono mai decadenti, non sanno mai di stantio, di polvere, o di andato a male, sono sempre luminosi e vitali, come una costellazione, vecchia di miliardi di anni, ma che racconta sempre la medesima, potente, storia.