Domanda di uno psicologo e psicoterapeuta / Voce delle soglie, che non smette di farsi domande.
L’innocenza che ancora si vuole uccidere
In ogni tempo, quando nasce qualcosa di vero, quando sorge un volto nuovo,
quando affiora l’innocenza di un bambino,
l’ombra del potere comincia a tremare.
"E la reazione è sempre la stessa: eliminare".
Così agisce Erode.
Così agiscono ancora oggi gli Erode travestiti da ordine, da sistema, da efficienza.
Non importa in quale epoca.
Ogni volta che il potere percepisce che qualcosa sta nascendo – fuori controllo, fuori norma, fuori calcolo – risponde colpendo chi è piccolo, fragile, senza voce.
Chi è nuovo, appunto. Chi non è ancora compromesso.
Erode è colui che non riesce a tollerare che l’altro viva, se quel vivere gli sottrae visibilità, centralità, prestigio.
Erode è chi si sente minacciato non da un nemico, ma da un neonato.
È una parabola cruda, eppure attualissima.
Perché oggi gli Erode non sono finiti.
Oggi gli Erode hanno solo imparato a vestirsi meglio.
Non hanno più la spada.
Ma hanno le carte bollate, le narrazioni ufficiali, le logiche di mercato, i linguaggi anestetizzati.
Uccidono l’infanzia che non produce.
Sradicano la fragilità che non performa.
Espellono la voce che stona nel coro.
Tagliano fuori ciò che non possono controllare.
Gli Erode che tolgono i bambini dai sogni.
Un bambino oggi non è più accolto come dono.
Spesso è pensato come peso, come intralcio, come ingombro.
Si vuole che cresca presto, che capisca tutto, che si adatti al mondo.
E se non lo fa, si corregge. Si normalizza.
O peggio: si ignora.
Nel mondo, nel cuore della nostra stessa Europa, tornano immagini inaccettabili: bambini in fuga, senza casa, senza patria, senza volto.
O peggio: bambini sotto le bombe, che piangono nel fango o muoiono in silenzio.
Sì, gli Erode di oggi uccidono ancora i bambini.
Lo fanno a Gaza.
Lo fanno nei barconi del Mediterraneo.
Lo fanno nelle periferie della miseria.
Ma lo fanno anche nei luoghi più rispettabili, dove nessuno urla, ma tutti dimenticano.
Perché il nuovo Erode è il silenzio.
Il cinismo.
L’indifferenza.
La morte lenta, fatta di sguardi voltati altrove.
Gli Erode dentro le istituzioni religiose.
Ma non basta fermarsi alla denuncia del mondo.
Anche nella Chiesa ci sono Erode.
E non per odio, ma per paura.
Paura di perdere il controllo su ciò che nasce libero.
Paura del profeta che dice verità scomode.
Paura del piccolo, che con la sua sola presenza, mette in crisi le nostre liturgie senz’anima.
Anche oggi, a volte, Dio nasce lontano dai templi.
E noi restiamo a custodire un’istituzione, mentre Lui prende un’altra strada. Continuiamo a parlare di Vangelo, mentre non ci accorgiamo che stiamo escludendo proprio quelli che Gesù avrebbe accolto per primi.
A volte la Chiesa diventa Erode quando dimentica la carne per difendere la dottrina.
Quando difende l’altare, ma dimentica il bambino.
Quando salva l’apparenza, ma sacrifica il fragile.
Quando tace, copre, manipola, purché tutto resti in ordine.
Un ordine senza vita.
Un ordine senza amore.
E così il sacerdote fragile viene lasciato solo.
Il giovane inquieto viene giudicato.
L’omosessuale viene silenziato.
Il pensiero critico viene ostracizzato.
E il bambino – simbolico o reale –
viene lasciato senza carezze, senza futuro, senza nome.
Ma la storia non finisce con Erode
C’è un dettaglio potente nel Vangelo.
Erode ordina la strage.
Ma un uomo semplice, Giuseppe, prende il bambino e lo porta via.
Per ogni Erode che vuole distruggere,
c’è un Giuseppe che protegge.
C’è una madre che non si rassegna.
C’è un Dio che si sposta,
che fugge con i suoi,
che non abbandona.
Non è un Dio che manda la prova.
È un Dio che scappa con noi nella notte,
che accetta di non essere accolto,
ma che non ci lascia soli nel pericolo.
Ed è questa la resistenza dell’amore.
Non quella che vince con la forza.
Ma quella che salva col custodire.
Che salva col restare.
Che salva col portare via.
Che salva col non diventare Erode.
Oggi il Vangelo ci chiede una cosa sola: di non diventare anche noi carnefici dell’innocenza.
Non serve la spada per uccidere.
A volte basta lo sguardo indifferente.
Basta il sarcasmo.
Basta il “non è affar mio”.
Basta il “non tocca a me”.
E invece tocca a noi.
Tocca a noi proteggere l’umano.
Tocca a noi alzare la voce.
Tocca a noi dire di no alla logica della distruzione mascherata da efficienza.
Tocca a noi scegliere, come Giuseppe, di portare via ciò che ha valore, anche se il mondo dice che non serve.
Anche se la legge dice che è meglio eliminare.
Siamo chiamati a salvare il fragile, non a sacrificarlo sull’altare delle paure.
Perché il bambino non è solo un simbolo.
È ciò che ci resta dell’umano.
E se uccidiamo anche questo, non avremo più nulla da custodire.
Nemmeno noi stessi.