Diritto all’autodeterminazione individuale: tra diritto a rifiutare le cure ed il diritto a lasciarsi morire

Diritto all’autodeterminazione individuale: tra diritto a rifiutare le cure ed il diritto a lasciarsi morire
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Con l’accoglimento da parte del Parlamento della proposta di legge del Partito Socialista, la Spagna è diventato il settimo Paese al mondo a legalizzare l’eutanasia. Questo avvenimento ha rilanciato in Italia un dibattito che in realtà non è mai sopito.

L’importante tematica dell’eutanasia, oltre a rilevare nei contesti sociologici e culturali, relativi alla filosofia, alla storia, all’arte e alla politica – con pochi risultati in quest’ultimo contesto – merita un approfondimento dal punto di vista puramente giuridico, di diritto. E strettamente correlato all’oggetto della trattazione non può che essere il diritto fondamentale alla vita, supremo e inalienabile.

Il diritto alla vita presenta una doppia sfaccettatura. È un diritto individuale indisponibile manu aliena: l’art. 579 c.p. prevede, ad esempio, come reato l’omicidio del consenziente.

È un diritto, però, disponibile manu propria.

Nel nostro ordinamento giuridico è pacifico che una persona capace di autodeterminarsi possa rifiutare un trattamento sanitario, anche se tale rifiuto determina un grave danno alla sua salute, portando alla morte.

In queste situazioni, attraverso le disposizioni combinate dell’art. 32 co.2 Cost. e dell’art. 13 Cost., si riconosce all’individuo il diritto all’autodeterminazione terapeutica; con la conseguenza che nulla possono obiettare i medici riguardo tale scelta, poiché vincendo con la forza la volontà del paziente violerebbero la sua libertà di autodeterminazione e commetterebbero i reati di violenza privata e lesioni.

La situazione diventa più complicata quando la vittima versi in stato di incoscienza, tale da non poter esprimere la volontà di rifiutare le cure. Emblematico è stato il caso Englaro, in cui la Cass. civ. con sentenza 21748/2007 ha riconosciuto al paziente il diritto a non curarsi; la Suprema Corte ha statuito che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzare l’interruzione delle cure nel caso in cui ricorrano insieme due circostanze: la condizione di stato vegetativo irreversibile del paziente e l’accertamento degli elementi della personalità tratti dal suo vissuto, quali la concezione etica, filosofica, culturale, morale, religiosa che ne orientavano i comportamenti e tali per cui è desumibile che se egli fosse stato cosciente non avrebbe continuato il trattamento terapeutico.

Gli stessi giudici di legittimità conclusero con un’importante distinzione: “il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia (…), esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”.

La vicenda di Eluana Englaro, così come quella relativa a Piergiorgio Welby – citando solo quei casi, tra i numerosi, che hanno avuto maggiore riscontro mediatico - ha dimostrato la mancanza di disposizioni legislative, invocate a più riprese da giuristi, medici e consociati, che disciplinassero le situazioni in cui i pazienti versassero in stato di incoscienza irreversibile ed erano impossibilitati ad autodeterminarsi in ambito sanitario. In sintesi, si sentiva un gran bisogno dell’istituto del testamento biologico.

Fortunatamente questo vuoto legislativo è stato colmato con la L. 219/2017, la quale all’art. 4 – “Disposizione anticipate di trattamento” stabilisce che: “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata «fiduciario», che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.”

Il testamento biologico rispecchia lo scopo del diritto: dare certezze alle incertezze di cui si connotano le conseguenze delle azioni umane.

La stessa legge all’art. 1 pone (finalmente) una disciplina sull’autodeterminazione dell’individuo in ambito sanitario, richiamando i riferimenti normativi interni (artt. 2,13,32 Cost.) e comunitari (artt. 1,2,3 Carta di Nizza) più importanti in tale contesto bio-etico-giuridico.

Il consenso informato è ciò che valorizza il rapporto medico-paziente, “nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilità del medico”; lo stesso medico sarà esente da responsabilità civile o penale poiché tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo.

Per tutte queste considerazioni la L. 219, superando quelle concezioni etiche del passato rimaste fin troppo indietro rispetto allo sviluppo della medicina e considerate anacronistiche, è stata accolta con favore dagli operatori giuridici, con l’auspicio della risoluzione delle problematiche del diritto all’autodeterminazione dell’individuo in contesto terapeutico.

Ma tale intervento normativo non ha risolto quelle questioni che rappresentano “l’altra faccia della medaglia” e affrontate recentemente dalla giurisprudenza costituzionale: quelle relative al diritto di essere aiutati a morire o di morire dignitosamente.

Il tema dell’eutanasia è stato affrontato dalla Consulta nella vicenda che ha visto come imputato Marco Cappato, chiamato a rispondere dinanzi la Corte di Assise di Milano del reato ex art. 580 c.p. - “Istigazione o aiuto al suicidio” per avere aiutato un malato irreversibile tenuto in vita artificialmente, Fabiano Antoniani alias “D.J. Fabo”, a terminare la propria esistenza, accompagnandolo in una clinica in Svizzera ove lo stesso ha posto in essere la sua ultima volontà: il suicidio.

Occorre chiarire che la scelta suicidaria è stata consapevole, maturata dalla vittima dopo vari tentativi di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica attraverso scioperi della fame e rimasta intatta fino all’esalazione dell’ultimo respiro.

I giudici di merito, con ordinanza del 2018, hanno sollevato una questione di legittimità dell’art. 580 c.p., mettendo in discussione la tenuta della norma nella parte in cui “incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio”, eccependo un’incompatibilità con gli artt. 3, 13, 117 Cost (per violazione artt. 2, 8 Cedu) ; e laddove “prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida” siano punibili con la stessa pena dell’istigazione, violando gli artt. 3, 13, 25, 27 Cost.

La Consulta, con ordinanza n. 207/2018, di primo acchito rigetta la tesi dell’assoluta illegittimità costituzione dell’art. 580 c.p. sostenuta dai giudici milanesi, perché tale norma non si pone in completo contrasto con la Costituzione, avendo come finalità la protezione del soggetto debole da decisioni in suo danno.

In particolare, l’incriminazione non è ritenuta in contrasto né col diritto alla vita (art. 2 Cedu), che riconosce il dovere dello Stato di tutelare la vita, ma non quello di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire; né col diritto all’autodeterminazione individuale (art. 13 Cost), poiché la norma penale ha come ratio la protezione delle persone più deboli e vulnerabili da scelte estreme ed irreparabili come il suicidio, che derivino da impulsi esterni di terzi, che possano influenzare le menti delle vittime già gravemente depresse dal loro stato di salute fisico.

La Corte, tuttavia, tiene anche conto che vi sono situazioni inimmaginabili all’epoca dell’entrata in vigore del codice Rocco: il progresso scientifico della medicina ha fatto sì che vi sono pazienti che pur sfuggiti alla morte continuano a vivere “artificialmente” ed in modo deficitario.

Giunge così al punto cruciale della questione: l’aiuto di terzi può presentarsi all’occhio del malato come l’unica via per porre fine, in modo dignitoso, ad una vita “artificiale” non più voluta e che egli stesso ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32 co. 2 Cost.

Una via che, però, è priva di riconoscimento legislativo, in quanto la richiamata L. 219/2017 riconosce il diritto di ricorrere ad una “sedazione palliativa profonda continua” congiuntamente alla terapia del dolore (art. 2); ma nulla dispone circa i trattamenti diretti a terminare la vita in un breve lasso di tempo, costringendo gli individui coscienti, ma in stato irreversibile, ad un processo degenerativo più lento, meno dignitoso e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care.

È su questo punto che la Corte conclude l’ordinanza, lasciando al Parlamento la possibilità di assumere le decisioni di carattere etico necessarie a offrire spunti di risoluzione per casi concreti, “ferma restando l’esigenza di assicurare la tutela del malato nei limiti indicati nella presente pronuncia”.

Continuando a persistere la situazione di inerzia legislativa, il Giudice delle Leggi risolveva la questione con l’importante sentenza n. 242/2019: partendo dal presupposto che la legislazione ad oggi vigente limita l’intervento medico al ricorso di sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, mentre non consente trattamenti di interruzione della vita; e considerato che questa limitazione non permette all’individuo di autodeterminarsi nelle scelte delle terapie finalizzate a liberarlo dalle sofferenza permettendogli di congedarsi dalla vita, la Corte Cost. sanciva l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. per violazione degli artt. 2, 13, 32, 117, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della L. 219/2017 agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

L’aiuto al suicidio, se ricorrono le enunciate condizioni, non è più punibile.

A conclusione di questa trattazione, è bene puntualizzare che nonostante diversi richiami da parte della Corte Costituzionale, l’iter parlamentare che dovrebbe portare ad una legge sull’eutanasia è ancora lontano dal concludersi. Ad oggi, un italiano al giorno (in media) che richiede di morire è costretto a recarsi all’estero perché lo Stato a cui appartiene è ancorato a logiche retrograde ed a inspiegabili impasse parlamentari.

Dott. Giovanni Iulio Foti

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