Considerazioni su "I volti dell'io" di Francesco Innella

Considerazioni su "I volti dell'io" di Francesco Innella
}}

Innella con questa raccolta si dimostra un autore provvisto di un’autentica vena lirica, che non si fa irretire dagli stilemi dell’ortodossia (o egemonia) poetica. Non cercherò di fare un’analisi dei codici linguistici. Quello che mi sento di dire è che evita sapientemente alcune modalità con cui molti autori pensano di fare poesia: le pennellate impressionistiche, un uso smodato di analogie e sinestesie, la ricerca di facili effetti fonici, il ricorso a descrizioni ossessive e ad accumuli, la scelta di un linguaggio indeterminato, la mania di intellettualismi incomprensibili ai più. Questi sono gli stratagemmi più in voga per cercare una via di sfogo delle proprie nevrosi oppure per scagliarsi con furia iconoclasta contro le sovrastrutture. Ma Innella non si fa imbrigliare. L’autore non cede al plurilinguismo, non aspira a raggiungere ingenuamente la soglia del dicibile, non ricerca un grado zero, non fa in modo che il suo linguaggio ripieghi su sé stesso per poi farlo cadere inevitabilmente nel metalinguaggio. In Italia siamo bravi a complicare cose già complesse. Soprattutto in ambito poetico siamo i maestri di un barocco, che scade spesso nel grottesco. Le cattedrali poetiche costruite da tanti sedicenti artisti non hanno mai vetrate (e non certo a causa del clima della penisola). Le navate non vengono mai traversate da lame di luce pura, che spiovono dal cielo. Ma il Nostro è perfettamente cosciente di tutto ciò e se ne sta alla larga. Innella sceglie con saggezza e maturità un registro linguistico “medio” per essere comprensibile a tutti (anche ai non letterati), articola sapientemente le sue capacità espressive per aumentare la sua capacità comunicativa. L’esplicitezza dei simboli e delle metafore sono pregi, che sono dovuti ad una semplicità ponderata e alla ricerca consapevole della medietà. Innella in questa raccolta sceglie accuratamente di esprimersi piuttosto che di evocare. Naturalmente può riuscire in questo intento chi ha ormai acquisito e accettato lo scarto tra lingua e reale, lo iato tra lingua ed io. Il poeta sceglie di parlare a tutti senza reticenze, perifrasi e sottintesi: parlare a tutti non per dare la parola definitiva, ma per fornire al pubblico una parola provvisoria (visti e considerati i tempi che corrono). Infatti scrive in una sua lirica “siamo nel limbo/ di un’esistenza incerta”. Nonostante la sua immediatezza la sua poesia necessita di “ascoltatori attenti”. Naturalmente la speranza del poeta è che i suoi versi “le prendano gli uomini incalliti,/ ai vizi e alla vita”. Questo atteggiamento è diametralmente opposto rispetto ad autori autoreferenziali spesso in voga (i manieristi più o meno consapevoli di Zanzotto, Amelia Rosselli, Sanguineti). Lungi dal cercare di scrivere altri “fiori del male”, per il poeta il lettore è suo simile e suo fratello. La raccolta di Innella si distingue innanzitutto per l’incessante autoanalisi, che compie: un’introspezione in cui la soggettività conduce all’universalità. La sua ricerca è contraddistinta non certo dal narcisismo e dal solipsismo, ma dall’egotismo stendhaliano. L’autore trascende le noie della vita quotidiana, non si cruccia né rimpiange il passato. Rifugge dall’autobiografismo e dalla semplice trascrizione di fatti, luoghi e circostanze. Tra pathos e distacco sceglie di essere un osservatore partecipe di ciò che gli accade e di ciò che accade intorno a lui ed è per questo motivo che la sua sensorietà si tramuta in sensibilità: una sensibilità, che non può che suscitare nel lettore delle risonanze. Tutto ciò senza risultare didascalico e senza ricercare il pauperismo. L’autore non rischia mai di perdersi nel proprio groviglio interiore, non si perde mai nell’entropia come alcuni fanno con il risultato di apparire enigmatici ai propri occhi ed incomprensibili ai lettori. Una delle qualità del poeta è appunto la chiarezza. Infatti dalla struttura logico-discorsiva all’improvviso irrompono accensioni, illuminazioni ed epifanie che hanno felici esiti epigrammatici. Sul finire dei componimenti tramite salti logici inconsci e sospensioni compaiono delle rivelazioni: folgorazioni, che dimostrano come il Nostro sia sempre teso verso il perseguimento di “verità metastoriche”. Non pensiate erroneamente che l’autore si lasci sopraffare dall’inconscio. Piuttosto riesce a stabilire un equilibrio tra conscio ed inconscio. Riesce a razionalizzare l’inconscio senza rimuoverlo. Tutto cambia, tutto scorre. L’eterno divenire domina incontrastato. Eppure il Nostro è volto alla ricerca di quei principi immutabili, che governano le nostre continue metamorfosi. Nei primi versi delle liriche spesso vengono presentati tutti i toni e le sfumature della noia, della solitudine e dell’estraneità del vivere. La coerenza di stile di questi versi è propedeutica. Tramite la tessitura di questi primi versi l’autore si prepara alla riflessione finale, che spesso rivela il mistero dell’esistenza e quel nucleo insondabile di inespresso insito in ogni uomo. Innella è “onnivoro” perché la sua scrittura riesce a cogliere l’intera fenomenologia dell’esistenza: metafisica, fisicità, percezione e lacerazione. Per dirla alla Nietzsche il Nostro è un “inattuale”, che ci mostra l’inautenticità di molti aspetti del reale. Ad esempio nella lirica “Artisti” scrive: “e non ci accorgiamo che il tempo consuma/ le nostra ossa ed i versi si perdono/ in mute immagini di pianto”. La poesia di Innella non è sintomo di un disagio, ma espressione e riflessione di tutte le tematiche dell’esistenza. L’autore parte da un presupposto: l’illusorietà dell’unitarietà del proprio Sé. Lacan ci insegna che ogni bambino guardandosi allo specchio si identifica con l’immagine riflessa ed inizia a costruire il proprio Sé. Ma per Innella il discorso è più complesso perché lo specchio diviene metafora di tutte le metafore: il suo specchio è “l’eterno specchio della vita”. Il poeta sa bene che non è possibile tracciare una linea di demarcazione tra identità ed alterità al punto che si immedesima parzialmente sia con gli “uomini mai sazi di vita” che con Cesare Pavese. Ogni uomo che scava dentro sé stesso sente “l’orrore del vuoto”, ma la poesia di Innella alla fine risulta essere popolata di rifrazioni e riflessioni, di luci ed ombre, di contenuti e di forme. E’ una poesia che indaga, che ricerca la conoscenza ultima delle cose e dell’animo umano. E’ una poesia che scaturisce da uno sdoppiamento esistenziale perché l’autore vive e si guarda vivere: è allo stesso tempo attore e spettatore. E’ una poesia che si ciba del quotidiano e che dall’esperienza contingente riesce ad estrapolare le costanti antropologiche e le coordinate esistenziali dell’uomo moderno. E’ una scrittura che ci fa intravedere la parentela tra tutti gli uomini. Forse la poesia moderna può solo ricordare che cosa accomuna tutti gli uomini, visto e considerato che il libro della natura -da Galileo in poi- sembra essere stato scritto con l’alfabeto della matematica. Questa è una poesia originale perché nasce da un contrasto evidente: da un lato l’autore a livello stilistico ricerca la leggerezza, mentre sul piano contenutistico esprime l’insostenibile pesantezza dell’esistenza. Il risultato è una poesia metafisica accessibile a tutti grazie all’understatement linguistico. Questo è un procedimento rischioso, che può generare equivoci e fraintendimenti. E’ una poesia sempre in equilibrio precario. E’ una poesia che scaturisce dall’azzardo, dalla scommessa. L’autore si trova sempre nell’attesa dell’esito finale, nell’istante decisivo del “rien ne va plus”. Qualcuno potrebbe confondere questo procedimento poetico con l’atteggiamento esistenziale dell’autore. Bisogna però ricordare a tal riguardo che non è la poesia che rovina la vita, ma è piuttosto la vita che spesso rovina la poesia. La poesia di Innella è fatta anche di scaglie di esistenza, di frammenti che denotano il male di vivere. Probabilmente inizia come autoterapia, certamente finisce per essere testimonianza nel senso più alto del termine. Qualcuno potrebbe obiettare che l’autore sia un nichilista. Ma a questo punto basta intendersi. Secondo il filosofo Severino il nichilismo nasce dalla concezione assai diffusa che le cose provengano dal niente e ritornino nel niente. E’ un concetto che ereditiamo dai greci. Però a differenza di quell’antica civiltà oggi non abbiamo più una letteratura mitopoietica né la tragedia greca, che riuscivano a creare archetipi. Non solo ma il nichilismo insito nella società occidentale è dovuto anche alla morte di Dio.  Gli intellettuali poi non riescono a mettersi d’accordo su come l’uomo debba rapportarsi di fronte alla morte: la morte che non è mai come quella descritta dai libri di filosofia, ma che è piuttosto come la morte di Ivan Il’ic di Tolstoj. Nella nostra epoca vale il motto di Benjamin Franklin “Time is money”, però il nostro inseparabile orologio può rivelare il suo lato terrifico. Infatti come ci insegna il Belli la morte sta nascosta negli orologi. Non parliamo poi della società attuale, che ha reso l’uomo sia homo oeconomicus che homo videns (cercando di cancellare definitivamente il vecchio cogito ergo sum). Verrebbe allora da chiedersi chi non è nichilista in quest’epoca? Anche se fosse nichilista l'autore non si potrebbe certo puntare l'indice contro di lui. Posso concludere quindi affermando che Innella con questa raccolta poetica non ha fatto solo e soltanto il proprio autoritratto, ma è riuscito nell’intento di essere il ritrattista di ogni potenziale lettore perché i volti dell’io dell’autore sono anche i volti dell’uomo contemporaneo. La poesia di Innella è “il canto di un cuore solitario” (Epilogo), ma la sua solitudine non dipende dall’assenza della donna amata, da un amore non corrisposto o dalla mancanza di stimoli sociali. Il poeta è solo anche a causa dell’ “opacità dei corpi” (Quieti appannamenti) ed a causa delle “cose che tacciono al cospetto del mio dolore” (Quiddità). Spero quindi che il lettore non si perda nei frammenti delle personalità dell’autore, ma che sappia far tesoro delle sue “verità metastotiche”, perchè la sua solitudine finisce per essere la stessa identica solitudine dell’uomo contemporaneo.

Davide Morelli (2008)

‌‌

Dalla stessa Categoria