La storia.
Il Codice Cospi di Bologna è conosciuto prima di tutto per essere uno dei pochi rimasti fra la dozzina di codici precolombiani scampati alla furia del tempo e dell’uomo. Il Codice (detto anche “di Bologna”, per l’appunto), è fatto in pelle di cervo. Infatti, in “Civiltà e religione degli aztechi” a cura di Pranzetti e Lupo, a pagina 939, si riporta uno stralcio della “Historia antigua de México” di Francisco Javier Clavijero nel quale si dice “il volume di pitture messicane conservato nella biblioteca dell’Istituto di Bologna è fatto di una pelle molto grossa e mal conciata”.
Il Codice venne donato a papa Clemente VII, per poi passare, dalla collezione Cospi, all’Istituto dell’Accademia della Scienze di Bologna. Esso fa parte del “Gruppo Borgia”. Si tratta di un codice Nahua, ossia originario, costruito pagina dopo pagina, da genti di lingua “nahuatl”, una congerie di popoli che va dall’Utah sino al Nicaragua, percorrendo tutto quello che definiamo il Mesoamerica. L’origine del codice, ad onore del vero, pare incerta; forse proviene dalla regione Puebla-Tlaxcalla. Il suo contenuto, redatto in pittogrammi coloratissimi, riguarda questioni religiose e divinatorie, in particolare riguardo il dio manifesto nel pianete Venere mattutino (dal nome alquanto sgraziato; “Tlahuizcalpanteuctli”, ossia “Signore della casa dell’alba”) e del Sole.
Le analisi
Il codice è stato analizzato con Macro XRF - la fluorescenza ai raggi X - uno strumento che, combinato con l’imagining iperspettrale nel range del visibile (sia in riflettanza che in fluorescenza), ha permesso dì analizzare la reazione dei pigmenti alla luce. Tutti strumenti di diagnostica non invasiva. Le prime analisi sul codice in proposito vennero effettuate nel 2006, a quasi quindici anni di distanza, il MOLab (Mobile Laboratory) torna ad occuparsi del Codice Cospi, sotto il coordinamento di Laura Cartechini, responsabile del CNR - Scitec di Perugia, ed Aldo Romani, presidente dello SMAArt.
Il Blu Maya
Si è così tentato anche di fare luce sulla distribuzione dei pigmenti inorganici e dei coloranti organici, in particolare il resistentissimo Blu Maya, il colore di Tlaloc, dio della pioggia, e dei sacrifici umani; esso veniva ricavato da una mistura di indaco, estratto dalla pianta dal nome altrettanto sgraziato di “Xiuhquilipitzahuac” (sempre in lingua nahuatl) e da alcuni composti argillosi, usati abitualmente come fissativi; così come scoperto dal Wheaton College dell’Illinois e dal Field Museum di Chicago, come riportato anche negli scritti di Clavijiero.
Un Codice attempato, che da tempo fa parlare (e parla) di sé.
A. Cremonese
FONTI:
https://en.wikipedia.org/wiki/Codex_Cospi
“Civiltà e religione degli aztechi” di Pranzetti e Lupo, ed. Mondadori, a. 2015
https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/sveliamo-i-misteri-del-codice-azteco-1.5798919
https://www.cnr.it/en/press-note/n-9741/lo-sguardo-della-scienza-sul-codice-cospi