Vita di Siddharta, l'importanza del momento presente

Vita di Siddharta, l'importanza del momento presente
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Siddharta, principe di un piccolo regno indiano del nord, nacque all'incirca duemilacinquecento anni fa, precisamente nel 566 a.C.

Suo padre, il re, gli impedì di uscire dal palazzo, facendogli conoscere soltanto le gioie e i piaceri terreni della vita di corte, della vita ricca di un ricco.

Un giorno, Siddharta si fece accompagnare fuori dal sontuoso palazzo da un suo servo fidato.

Vide un anziano.

“Cos'ha quell'uomo?” chiese al servo. “E' un vecchio” gli rispose “mio signore, nessuno rimane giovane e perfetto in eterno, capita a tutti di invecchiare”.

Siddharta stranito dalla presa di consapevolezza dell'esistenza della vecchiaia, fece, successivamente, un secondo incontro.

Vide un malato.

“Cos'è successo a quell'uomo?” chiese al servo. “E' malato” rispose “capita a tutti di ammalarsi”.

“Anche ai re e ai principi?” domandò Siddharta, il servo annuì.

La storia della vita di Siddharta Gautama, il Buddha, è stata tramandata per millenni come racconto archetipico della presa di coscienza umana dell'esistenza e del proprio io, fino ad arrivare a un trascendere persino se stessi.

Vi fu poi un terzo incontro.

Siddharta vide un cadavere, che veniva posto sulla pira, per essere bruciato.

Chiese spiegazioni al suo servo.

“Quella è la morte, tutti muoiono, mio signore, prima o poi”

Fu in quel momento che Siddharta comprese, uscendo dal palazzo dorato e dalla vita sontuosa, ricca di piaceri, ma cieca di fronte alle brutture del mondo, tipica dei nobili, il vero problema dell'esistenza umana, il vero ostacolo : la sofferenza.

Nascere equivale a soffrire. E perchè? Perchè ci attacchiamo al corpo, fu la prima intuizione del Buddha, e non esiste conoscenza autentica senza sacrificio. Abbandonò la moglie e il figlio e partì per conoscere i maestri yogi dell'antica India.

Prima di andarsene per sempre dal palazzo gli apparve Mara, il Signore dei Demoni, il re delle tentazioni, che gli rivelò il suo futuro. Se Siddharta fosse rimasto a palazzo, sarebbe diventato l'imperatore di tutta l'India, conquistando un regno dopo l'altro, vincendo una battaglia e una guerra dopo l'altra, sarebbe diventato un grande condottiero e un grande re.

Ma già sapeva, in cuor suo, che i piaceri derivati dall'essere un re potente, erano transitori, inconsistenti, e l'attaccamento a possedimenti materiali avrebbe causato nella sua mente e nel suo animo una sofferenza ulteriore, spingendolo a volerne sempre di più, a desiderare, e il desiderio non sarebbe mai stato appagato.

Questo perchè, comunque, in ogni caso, vi era il problema della sofferenza, della malattia, della vecchiaia, della morte, della corruttibilità dell'uomo.

Socrate, secoli e secoli dopo e tanti chilometri più a occidente, disse “Conosci te stesso”, rifacendosi all'incisione del tempio di Apollo a Delfi. Era quella la base per giungere alla serenità, conoscere, ma non il mondo esteriore, il mondo interiore. Solo tramite la conoscenza del mondo interiore era possibile giungere alla conoscenza della verità, che nelle culture mistiche e religiose, ha sempre una connotazione divina, proviene sempre da un mondo quasi altro, quasi oltre, rispetto alla realtà conoscibile attraverso i sensi. Il senso dell'incisione posta all'entrata del tempio di Apollo era che prima di chiedere un responso al dio tramite l'oracolo era fondamentale conoscere bene la propria interiorità, e sapere interpretare la risposta della profezia, ponendo la domanda più adatta ai propri veri desideri, alle proprie vere aspirazioni, alle proprie vere paure.

Siddharta incontrò un maestro di meditazione e di yoga. Le tecniche praticate allora erano pressochè identiche a quelle praticate tutt'oggi. Diventò un allievo molto promettente, espertissimo nelle tecniche dello yoga e della meditazione.

Un giorno, quando il maestro non ebbe più nulla da insegnargli, Siddharta si allontanò, in cerca di altri maestri, di altre vie, per risolvere quello che lui si era reso conto fosse il vero problema dell'esistenza umana, ovvero la sofferenza.

Entrò a far parte degli asceti, tutt'ora esistono in alcune zone dell'India. Siddharta si applicò con tutte le sue energie alle pratiche dell'ascetismo. Arrivò a mangiare un chicco di riso al giorno, bere la sua stessa urina e nient'altro, continuare a rimanere in meditazione e dedito alla vita spirituale anche sotto la pioggia e il vento, o il Sole battente.

Finchè un giorno, apparve una ragazza, giunse dal fiume. Gli porse una ciotola piena di riso e gli disse “Mangia”.

Siddharta mangiò. E quel nutrirsi, quell'accettare la ciotola della fanciulla, è un simbolo, è un dire “sì” alla vita, è accettare di avere un corpo e prendersene cura. Non si giunge alla verità martoriando o ignorando il corpo, sebbene il corpo può essere un ostacolo e una causa di sofferenza. Non c'è bisogno di meditare e basta, è giusto avere dei desideri fisici, corporei, bisogna solo scegliere quali, scegliere bene, e soprattutto, mantenere l'equilibrio.

E' emblematico l'esempio dell'accordatura del sitar. Se le corde sono troppo tese, o troppo molli, non produce un suono armonico, bello da ascoltare, lo stesso accade alle persone. Una corda troppo tesa rischia di spezzarsi, così come una corda troppo molle rischia di non produrre alcun suono.

Il corpo, sostengono i monaci tibetani, se è in una condizione di eccessiva sofferenza, diventa “troppo”, diventa qualcosa di pesante, qualcosa che ti impedisce di vivere in accordo con l'aspetto immateriale dell'uomo, quindi è giusto e necessario prendersi cura di se stessi, sotto ogni punto di vista.

A quel punto della narrazione archetipale e “mitica” della vita del Buddha, Siddharta si ricordò di un episodio della sua infanzia.

Suo padre, il re, lo portò ad assistere alla festa della semina. Si racconta che il piccolo Siddharta pianse rendendosi conto, vivendo appieno, il dolore dei formicai distrutti dal passaggio dell'aratro e dal suo solco. Poi, quasi spontaneamente, si mise nella posizione del loto, e iniziò a meditare.

Così, sotto l'albero sacro ai buddisti, luogo di pellegrinaggi, preghiera, e raccoglimento e meditazione ancora oggi, Siddharta divenne ciò che viene chiamato un illuminato.

Ricordò a se stesso che tutto è connesso, superando il pensiero egoico, trascendendolo, andando oltre la stessa idea di “io”.

Mara, il Signore dei Demoni, lo tentò prima con bellissime fanciulle, poi con promesse di gloria e potere. Mara rappresenta l'aspetto che fa soffrire le persone del mondo materiale. Mara sta a significare simbolicamente le sovrastrutture sociali e la mondanità. Il Buddha, ad un certo punto, affrontò addirittura l'esercito di Mara, i suoi demoni scagliarono frecce contro di lui, ma egli rimase in meditazione, e con un semplice gesto della mano, le frecce cadevano a terra prima di poterlo colpire. Mara si trasformò in Siddharta. E quest'ultimo, per divenire un illuminato, dovette affrontare addirittura se stesso, e giungere alla conclusione di non esistere come creatura o essere o ente singolo e distaccato rispetto al resto del reale, bensì come parte di un tutto che è un'unicità immane e immensa, che si esplica attraverso ogni forma di vita e ogni forma di vibrazione.

Il tutto vissuto con una gioia immensa, ma distaccata, calma, un piacere catastematico, e non dinamico, riprendendo il filosofo greco Epicuro. Quest'ultimo, infatti, molti secoli dopo, ebbe molto probabilmente contatti con il vicino Oriente, e oltre ad aver ereditato una visione atomistica dell'universo da Democrito, tutto si riconduce all'atomo, ossia a qualcosa che non può essere diviso, sta infatti la parola greca “atomo” etimologicamente a significare “indivisibile”, elaborò anche una morale detta appunto epicurea alla cui base sta la ricerca del piacere catastematico, l'autentico piacere, l'autentica quiete, l'autentica serenità.

La vita politica e la mondanità, per Epicuro, sono tutte cose che causano sofferenza all'uomo. Egli non tira in ballo come Siddharta la questione dell'attaccamento, ma si limita a intuire il fatto che sia più saggio dedicarsi a cose che durano, piuttosto che a cose che passano, vane, cambiano velocemente, addirittura si può dubitare della loro stessa esistenza, talmente passano in fretta. Quello che sappiamo di Epicuro è riportato nel poema “De Rerum Natura” di Lucrezio, poeta latino. Il proemio dell'opera è un inno dedicato a Venere e alla forza di rinascita della natura in Primavera e alla ciclicità delle stagioni. Per gli antichi il tempo è ciclico, non ha una direzione. Allo stesso modo, Alan Watts, pensatore contemporaneo, sosteneva che la vita stessa dev'essere vissuta uniformandosi alla natura dell'universo.

L'universo non va da nessuna parte, non ha uno scopo, una direzione, un target. Una volta entrato nel sistema scolastico ti si viene detto “Tra poco andrai in seconda elementare, poi una volta finite le elementari alle medie, poi il liceo, poi all'università, una specializzazione e poi finalmente potrai raggiungere il mondo del lavoro” e così passiamo i migliori anni della nostra esistenza con un senso di aspettativa della felicità e della realizzazione che è sempre spostato in avanti nel tempo, non è mai nel presente, il presente è sempre un assaggio di ciò che sarà. Una volta entrati nel mondo del lavoro, continua Watts, ti si viene detto di raggiungere sempre risultati migliori, e nel frattempo la vita passa e il senso di autentica realizzazione e serenità viene meno, e viene ancora una volta spostato in avanti. Alan Watts in una conferenza fece un paragone stupendo. Pensiamo all'universo come a qualcosa di musicale, disse. Non conta il finale, nella musica, o meglio, non conta solo finale, o il virtuosismo della composizione, se no esisterebbero solo compositori di “finali” e non composizioni complete, sarebbero ascoltati solo i compositori che poi eseguono il brano più velocemente possibile, per arrivare alla fine, all'obiettivo, al raggiungimento dello scopo.

Invece, ci siamo ingannati da moltissimo tempo, avremmo dovuto danzare e suonare e sentire questa musica che è la vita, piuttosto che correre e inseguire un obiettivo che viene continuamente spostato in avanti.

La vera realizzazione, per Epicuro, consiste nel godere dei piaceri catastematici, ovvero, i piaceri dove gli atomi sono in quiete e in armonia, mentre nei piaceri cinetici, gli atomi sono in movimento frenetico, in confusione. La carriera politica, l'eccessiva opulenza, la spropositata ricchezza, così come la propensione al vizio e tutti gli eccessi dell'esistenza spostano l'equilibrio verso uno stato di confusione. Epicuro aggiunse anche che la vita a contatto con la natura e la campagna è preferibile a una vita in città. Lo teorizzò all'incirca duemila anni fa. Gli autori antichi troppo spesso vengono relegati a un tipo di studio puramente concettuale, occorrerebbe pensare a fondo sull'attualità e sulla contemporaneità di molte voci dell'antichità, perchè la natura umana è sempre la stessa. I dubbi, le paure, i problemi e il modo di pensare e di agire degli uomini si ripete con i medesimi schemi e le medesime modalità. La cultura induista chiama tutto questo “karma”. Tutta quella serie di gesti inconsci che ci riportano sempre a ripetere gli stessi errori, che ci portiamo dietro probabilmente da moltissime generazioni, quello è il “karma”, esiste anche un “karma” famigliare, per così dire, che ha a che fare con l'interconnessione tra i membri della propria famiglia, insieme ai membri delle altre famiglie, e insieme all'umanità tutta, che a sua volta è connessa con la Terra e con ogni essere vivente.

Capire che tutto è connesso è fondamentale, in qualsiasi epoca. Questo rileggere e rivedere autori e storie antiche recentemente mi ha spinto a guardare ancora di più al presente. La confusione è innegabile, l'incertezza e la paura sono all'ordine del giorno, la sofferenza è tangibile, la puoi quasi sentire, avvertire, sulla pelle. E' come un pugno. Puoi rimanere indifferente di fronte alla povertà, alla fame, alla miseria, alla rabbia, alla frustrazione, a migliaia di anziani che muoiono soli? Non è una condizione recente, è una condizione perenne, questa, dell'essere umano. Vivere è soffrire, fu questa la grande intuizione di Siddharta. Dopo l'illuminazione raggiunta sotto l'albero che divenne poi sacro per il buddismo iniziò a predicare vagando per tutta l'India e trovando, dopo vari tentativi, discepoli che lo seguirono e interpretarono il suo pensiero, elaborandolo, ampliandolo.

Esiste una specie di uomo senza sentimenti, senza empatia. Così come Siddharta sentì, bambino, la sofferenza dei formicai distrutti dal passare del solco dell'aratro, vi sono persone che non sentono più nulla. E' l'uomo contemporaneo, è l'uomo che pericolosamente si sta formando. L'uomo arrabbiato perennemente che insulta chiunque si trova di fronte, o ha comunque un atteggiamento di chiusura, di difesa. L'uomo empatico sta scomparendo, o meglio, il suo spirito e la sua naturale vitalità data dalla quiete notturna del profondo della foresta inconscia in cui il nostro essere vive continuamente, viene sempre di più minato dal frastuono e dalla confusione del traffico di una città affollatissima in pieno giorno. So che molti si ritrovano in quello che sto scrivendo, moltissimi, anzi, quasi tutti, sono frastornati e stanchi dal frastuono. Vorrebbero solo un po' di silenzio. E allora molti ricorrono alle droghe, all'alcool, al gioco d'azzardo, al binge watching compulsivo di serie su Netflix, chi se lo può permettere. Gli altri sono sopraffatti dai loro problemi materiali, crisi economica, e quant'altro. Se fossimo governati da persone meno “tecniche” e più umane, più empatiche, più consapevoli, ma non per teoria, per pratica, che l'uomo è connesso con la natura e tutti gli esseri viventi sono in funzione degli altri e siamo tutti un'unica cosa sola, che si chiama universo, che si chiama vita, ed è un'energia inarrestabile, tutti questi problemi non esisterebbero, perchè udirebbero un grido da sotto la pelle, che sono tutte quelle voci delle sofferenze dei popoli, in ogni parte del mondo, che urlano di disperazione e sofferenza. Un urlo muto, ma di una potenza immane.

La narrazione che ci viene proposta è quella di un mondo stanco, di un mondo inquinato, di una Terra e di una razza umana che la abita malate entrambe, stanche entrambe.

Forse è il caso di riposare. Forse è il caso di riflettere.

Il mondo non è stanco, siamo noi che lo distruggiamo continuamente, tutti i giorni, con piccoli gesti inconsci. L'universo non va da nessuna parte, non ha uno scopo, un obiettivo, “it's a music thing”, diceva Alan Watts. E' qualcosa che ha a che fare con la musica. E soprattutto per l'universo non esiste un “devo”, esiste un “sono”, che si esplica da solo, senza sentire la necessità di affermarsi, o la volontà di raggiungere qualcosa. Esiste un unico momento presente, eterno, che si ripete all'infinito. Spesso quello che pensiamo sul futuro sono solo condizionamenti mentali che ci autoinfliggiamo. Il futuro non esiste nemmeno, esiste solo un “qui e ora”, che è l'unica cosa di cui si può realmente e concretamente fare esperienza.

Per questo credo che sia fondamentale per gli uomini tutti, in momenti di crisi storica, e con l'aggettivo “storico” intendo crisi sociale, economica, crisi dei valori morali, crisi dell'uomo in quanto tale, epoche e periodi pieni di dubbi e paure, pochissime certezze, sviluppare e praticare uno sguardo più ampio, che comprenda soprattutto la propria interiorità, poiché cambiando se stessi, se ogni essere umano cambiasse e diventasse un Buddha, una persona cosciente, anche il mondo cambierebbe. Chiunque può diventare un Buddha. Quando cammini per strada, prova a fare quest'esercizio, chiediti se chi incontri di sfuggita, e sono tantissime le persone che s'incontrano per strada, sia un Buddha. Domandatelo, profondamente. “Buddha? Buddha.”

Come si cambia il mondo? Come si migliora se stessi? Come si affronta la paura della morte e la paura della sofferenza?

Le risposte a questi dubbi ci sono, e sono nella cultura, sia occidentale, sia orientale.

E' sempre utile, a mio avviso, nel tempo libero, dedicarsi anche solo alla lettura di un paio di pagine di un'opera letteraria, o all'ascolto di musica, e stare con la musica o con il poema, il romanzo, l'opera filosofica, passare del tempo unicamente pensando e dedicandosi a quello. Cito la letteratura e la musica, ma qualsiasi arte può andare bene, così come qualsiasi gesto può trasformarsi in arte. Uno dei precetti fondamentali della filosofia del buddismo zen giapponese è quello che in qualsiasi momento della giornata, anche quando una persona sta semplicemente mangiando, oppure sta camminando, o sta svolgendo qualsiasi comune attività, o si sta allenando in modo fisico, sta praticando sport, deve farlo in modo cosciente ed essere presente e partecipe al momento che sta vivendo, perchè è l'unico momento possibile, nell'unico luogo possibile, qui, e adesso. La vita non è da un'altra parte. E conta soprattutto l'armonia. Un'armonia che è difficile da trovare fuori, ma non è una novità, non fa notizia questa cosa, i giornali non ne parlano, perchè l'essere umano nella sua presunzione ha pensato di poter controllare addirittura l'esterno, quando già si fa tantissima fatica a controllare ed equilibrare l'interiorità e le proprie emozioni. Occorre riequilibrare le proprie sensazioni, riallineare le proprie percezioni, meditare, connettersi con ogni singola foglia e ramoscello di un albero, riagganciarsi a se stessi, fare in modo che la ragione e le emozioni collimino in un unico sistema funzionante. Equilibrio, quiete, pace. Respirare.

Dedicarsi all'arte è una buona pratica perchè nell'arte c'è più realtà di quanto si penserebbe. Nietzsche, ne “La Nascita della tragedia”, individua due aspetti fondamentali dell'arte antica greca, due entità metafisiche, due forze, due energie contrapposte : Apollo e Dioniso. Il primo indica la ragione, il secondo l'emozione e l'irrazionale.

Per dare vita ad un'opera artistica questi due elementi devono collaborare tra di loro, devono unirsi in un'unica composizione armoniosa.

Il principio taoista dello yin e dello yang, svolgendo un paragone un po' azzardato, funziona più o meno allo stesso modo. Non si parla di arte, in questo caso, ma si parla di esistenza, e di trascendere il dualismo yin e yang per arrivare alla percezione del tao, che è in realtà una non percezione, un'assenza di percezione, un sentire la vacuità. La vacuità è un tema importantissimo e ricorrente nelle discipline filosofiche e anche religiose dell'Asia antica. Sono concetti antichissimi, che provengono da civiltà molto più antica della nostra appena nata società globalizzata e “di massa” che forse non funziona neanche tanto bene, perchè non riesce ad appianare le divergenze, non riesce a creare un equilibrio. E per equilibrare bisogna partire dall'interiorità, e mai come in questo momento vengono date indicazioni esteriori alle persone, ma non interiori. Il problema è tanto rimanere distanziati socialmente, tanto quanto superare la paura di uscire di casa. Sono due facce della stessa medaglia, e se non ci si rende conto di questo, si rischia di creare nelle persone dei contrasti che portano alla schizofrenia vera e propria. Per questo in questo oceano in tempesta di confusione, di atmosfera di guerra, di incertezza, di paura, di disuguaglianze, sempre presenti nel nostro pianeta, ma che per un bel po' di anni non avevano sfiorato la cultura occidentale in un modo così massiccio e coinvolgendo tutti, ogni singolo individuo, spesso e volentieri mi perdo nell'infinito dell'arte e della letteratura, e il naufragare mi è dolce in questo mare, dolcissimo. Perchè la storia è davvero maestra di vita, e perchè i maestri dell'antichità erano davvero maestri.

Tuttavia è bene ricordare che la vera rivoluzione parte dall'interno, e che se qualcuno sta soffrendo perchè gli altri soffrono, non deve sentirsi pazzo, o folle, o addirittura malato di mente, è semplicemente l'umanità che viene fuori, questa perla che abbiamo all'interno di un guscio indurito dalle delusioni e dagli schiaffi che la vita ti tira, mettendoti alla prova, continuamente, dentro c'è ancora l'umano, dentro c'è ancora l'antico che guarda le stelle e ci vede delle storie, delle leggende, perchè viviamo di storie, tra le infinite distanze tra le costellazioni. “Io non credo nella rivoluzione politica, credo nella re-evoluzione poetica dell'uomo” disse il regista cileno Alejandro Jodorowsky durante un'intervista. Devo ammettere che mi trovo perfettamente d'accordo.

Siddharta morì sorridendo, in pace, dopo aver mangiato del cibo probabilmente avariato, si dice che sapesse benissimo che il cibo fosse andato a male, non buono da mangiare, ma non volesse deludere il contadino che glielo stava offrendo, e anche che sapesse benissimo che stava giungendo il momento di salutare i suoi discepoli. Come Socrate, se ne andò da questo mondo con estrema serenità. Come coloro che sanno qualcosa che ai comuni mortali pare quasi precluso, se non dopo aver fatto un cammino interiore di conoscenza e di presa di coscienza lungo, impervio, e molto difficoltoso. Non siamo né Siddharta né Socrate, anche se abbiamo tutte le potenzialità per avvicinarci a una condizione di serenità e di accettazione, che non è rassegnazione, ma se noi guardiamo al momento presente, e a nient'altro, allontanando dubbi e paure, che spesso sono solo pensieri vuoti, e ci portano a farci ancora di più del male, anche gli uni con gli altri, allora possiamo ragionare lucidamente. Il “logos” è il centro del pensiero greco, e la filosofia ellenica dell'antichità ha dato i fondamenti per la cultura e la società moderna e contemporanea. “Logos” significa sia parola, sia razionalità, verbo, pensiero, tutto ciò che ci distingue dai regni animali, che non hanno la parola sia parlata, sia scritta. E' tramite queste qualità e questi fondamenti antichi dell'uomo che possiamo pensare a un umanesimo autentico, vero, vitale, e realizzare ogni cosa, dalla più piccola e privata, alla più grande e pubblica, in funzione dell'uomo e dell'umano. Anche e soprattutto partendo dalle cose che facciamo per noi stessi. Occorre semplicità, occorre genuinità, umanità, quiete, equilibrio. Ma per arrivare a questo, bisogna rendersi conto che i formicai distrutti dal solco dell'aratro ci riguardano, ogni essere vivente è interconnesso, per questo il buddismo parla spesso di rendere felici gli altri se si vuole felicità, ma con distacco. C'era un gesto scaramantico che io e molti miei compagni di università facevano prima di dare un esame, fare l'elemosina alla signora che stava tutto il giorno in strada a suonare una fisarmonica. Facevamo quel gesto con un cinismo pazzesco, lo facevamo non tanto per aiutare la signora, ma perchè, scaramanticamente, pensavamo che portasse bene, che poi, una volta fatta l'elemosina, si era a posto con la propria coscienza e col proprio “karma”, e allora l'esame lo si passava, e lo si passava davvero, a volte, per carità, non lo metto in dubbio. Solo che un giorno mi resi conto con orrore dell'ipocrisia che si nascondeva dietro tutto questo, e realizzai di quanto fosse in realtà un gesto egoistico e bieco, un tentativo di fregare la sorte, di mettersi a posto la coscienza per poi passare l'esame, ingraziarsi la fortuna. Forse era solo stupidità giovanile, però scoprii che molti lo facevano. Forse ci sentivamo soltanto in colpa perchè noi universitari avevamo bene o male tutto, e quella signora non aveva nulla, soltanto la sua fisarmonica. Forse c'era quello che addirittura invidiava la condizione di libertà della signora con la fisarmonica, lei non doveva dare nessun esame, doveva pensare a suonare e basta, per poter mangiare, suonava con gli occhi vuoti, ti sorrideva accennando un “grazie” quando gli lasciavi qualche moneta. Voglio tornare da quella signora, un giorno, e regalarle quello che ho in tasca, e poi mettermi a suonare la chitarra, lì, per strada, insieme a lei, perchè ormai gli esami universitari li ho dati anni fa, e avrei tutto il tempo per stare con la sofferenza della gente, senza usarla a mio vantaggio per sentirmi meglio. Solo allora ritornerei umano. Solo allora mi sentireidavvero umano. E' capitato anche a me, proprio come a Siddharta, per questo ne sono rimasto colpito, di sentire la sofferenza delle formiche, e di un formicaio distrutto dalla potenza dell'acqua, e di rendermi conto che tutto è connesso. Sono quelle cose che accadono quando siamo bambini e che poi tralasciamo, le consideriamo stranezze, invece si tratta solo di sensibilità, di empatia, si tratta solo di essere umani, la vita e il mondo c'induriscono, ci costruiamo una scorza dura, fuori, ma dentro siamo più fragili che mai. Dovremmo vivere, proprio come quando si era bambini, che si viveva, si piangeva, e il momento dopo si rideva, si lasciava andare il momento passato, si pensava al qui e adesso, al momento presente, molti danno una definizione a queste considerazioni facendole rientrare nella sfera della mindfullness, che è tanto in voga, perchè appunto stiamo perdendo il momento presente in un miscuglio di idee preconfezionate e di incertezze esistenziali che causano male all'uomo in ogni suo aspetto.

“Non cercare di piegare il cucchiaio, è impossibile. Cerca invece di fare l'unica cosa saggia, giungere alla verità” “Quale verità?” “Che il cucchiaio non esiste” “Il cucchiaio non esiste?” “Allora ti accorgerai che non è il cucchiaio a piegarsi, ma sei tu stesso” - The Matrix, 1999

Samuele Baricchi

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