Perché vorrei riuscire a essere violenta, almeno per un giorno, saper essere violenta?
Perché questo sentimento è il risultato della rabbia. La rabbia che provo – nel mio lavoro – a causa della conoscenza diretta e completa di molte situazioni di maltrattamento e abuso sulle donne; ma anche per la grande ipocrisia che accompagna la lotta contro il fenomeno assurdo, eppure diffusissimo, del Femminicidio.
Quest’anno ho letto decine e decine di relazioni tecniche su donne che avevano denunciato le violenze; e che avevano superato anche molti ostacoli per giungere alla denuncia.
Non è facile recarsi in commissariato e denunciare; per la paura di rappresaglie da parte del maschio abusante, ma non solo. Anche perché l’onere della prova, quando si denuncia, è a carico della stessa donna vittima di violenza, che spesso diventa oggetto di verifica e di indagine ancor più e ancor prima del soggetto aggressore.
Ma ciò che ho trovato ancor più pazzesco – soprattutto perché messo in opera, spessissimo, da CTU e Giudici donne e madri – è quanto puntualmente, negli atti del procedimento istruito a seguito della denuncia, si legga che tali donne vittime di violenza abbiano un “disturbo della personalità con sindrome paranoideo-persecutoria”.
Una donna che denuncia le violenze e che enumera le situazioni, i casi, i momenti, gli atti di tale violenza è considerata esagerata, ossessiva, paranoica: sostanzialmente matta, con disturbi psichiatrici.
E se i figli dichiarano di non trovarsi bene o di essere, anche loro, maltrattati dal padre, certamente sono stati istigati, manipolati dalla madre. Che oltre a essere pazza, dunque, è anche una infida manipolatrice.
E ancora – come se tutto questo non bastasse – le madri entrano con i figli in strutture, se hanno avuto il coraggio e la forza di denunciare, ma escono spesso senza.
Le donne che denunciano le violenze molto spesso – anzi, nella maggioranza dei casi – perdono i figli.
Ed è questa la ragione per cui molte donne non si sentono di denunciare e restano in casa, assieme al proprio carnefice; questa è una delle ragioni primarie del femminicidio in Italia: per le donne che denunciano non ci sono garanzie.
Le donne non hanno paura di denunciare il maltrattante – o non solo, almeno – hanno paura di perdere i figli. Perché questo è ciò che accade.
Allora basta con menzogne e ipocrisie.
Perché una guerra reale al femminicidio è possibile solo quando si ammette che il fenomeno poggia su una struttura che non tutela le donne.
Ed è malvagio – oltre che vigliacco – questo riempirsi la bocca con appelli a denunciare, quando le donne poi restano sole e spogliate anche dell’abbraccio dei propri figli.
Non ho mai visto – quando difendo molti padri per bene, accusati ingiustamente – la medesima diagnosi di disturbo paranoideo-persecutorio applicata a un uomo.
Il disturbo della personalità, guarda caso, è solo una “malattia” femminile.
E nelle determinazioni dei Giudici – sempre nel solo caso delle donne, mai degli uomini – viene richiesto espressamente che la denunciante «si sottoponga ad un percorso di psicoterapia per accettare il maltrattante».
Non solo vittime di violenza. Ma condannate a dover accettare l’autore di tali violenze.
Come posso, dunque, essere meno arrabbiata di quanto non sia oggi?
E come potrei – se solo fosse nella mia natura – non desiderare di essere io stessa, per una volta, per un giorno, violenta?
È ovvio che questa rabbia inascoltata non debba portare, essa stessa, a violenza.
Ma deve essere altrettanto chiaro che questa enorme ipocrisia attorno ad un tema così grave – che interessa la vita delle donne e la sopravvivenza degli affetti – non è più sopportabile.
Che le donne denuncino, certo.
Ma che siano messe in condizione di farlo. Senza diagnosi, senza ulteriori violenze. E senza la paura – o peggio, la certezza – di perdere i propri figli.