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Dottore Carlo D'Angelo : "Lettera aperta alla Chiesa: Perché un prete muore a 35 anni? Un grido d’amore e di verità per una riforma del cuore e della carne
Dottore Carlo D'Angelo : "Lettera aperta alla Chiesa: Perché un prete muore a 35 anni? Un grido d’amore e di verità per una riforma del cuore e della carne
Non è un’accusa. È una domanda che brucia".
Dottore Carlo D'Angelo Psicologo e Psicoterapeuta : "Don Matteo aveva 35 anni, era un giovane presbitero, appassionato, impegnato tra i giovani, nelle comunità, nei percorsi formativi.
Eppure, qualcosa si è spezzato.
E si è spezzato in silenzio.
La sua morte ha lasciato smarriti non solo i fedeli, ma anche tanti sacerdoti, vescovi, cardinali.
Perché nessuno aveva colto il disagio?
Perché nessun segnale era stato abbastanza evidente da salvare una vita?
È un silenzio che pesa.
È uno scandalo silenzioso, che ci obbliga a fermarci.
Parlo da credente, da psicoterapeuta, da uno che da anni accompagna sacerdoti, religiosi, giovani seminaristi.
Parlo per amore della Chiesa.
E scrivo non per giudicare, ma per interrogare e svegliare.
Una Chiesa che ha dimenticato l’umanità, forse abbiamo smarrito la visione umana di Dio.
Quel Dio che in Gesù si umanizza nei gesti, che tocca, piange, ama, guarda.
Quel Dio che non ha paura della carne, ma l’assume, la attraversa, la consacra.
Gesù non ha scritto trattati di teologia morale, ha lavato i piedi.
Ha amato. Si è lasciato amare.
Eppure oggi, tanti preti vivono da soli, schiacciati, oberati, lasciati come manovalanza pastorale nelle parrocchie.
Molti sono inviati in comunità fredde, a volte tra laici immaturi, incapaci di comprendere la fatica di essere pastori in un tempo così fragile.
La formazione che non basta più.
La formazione nei seminari spesso è ripetitiva, astratta, distante.
I formatori sono, in alcuni casi, poco preparati a cogliere le domande profonde, i dolori sommersi, le tensioni affettive.
Non si può più formare un presbitero come 50 anni fa.
Serve una riforma:
• più umana,
• più incarnata,
• più capace di accogliere la fragilità senza sospetto,
• capace di custodire la castità non come assenza, ma come relazione trasfigurata.
Castità non è solitudine
Lo dico con forza: castità non è isolamento, non è repressione.
Non è una caccia a ciò che il prete fa o non fa “nelle mutande”. Basta!
Abbiamo bisogno di una visione spirituale, poetica, affettiva, vera della castità.
Castità è vivere l’amore come dono, non come negazione.
È saper stare con gli altri, uomini e donne, con verità e libertà, in piccole fraternità vere.
È imparare a stare in relazione senza possedere, a lasciarsi toccare senza perdere se stessi.
Non si può lasciare un prete senza amici, senza fratelli, senza una rete affettiva sana.
È impensabile che, in un’epoca così connessa, un presbitero viva isolato come se la solitudine fosse una virtù.
Non lo è. Non lo è mai stata.
Proposte concrete, non parole vuote
• Creiamo fraternità diocesane vere, anche solo tra due o tre preti.
• Non lasciamo soli i sacerdoti dopo l’ordinazione.
• Promuoviamo formazione continua, ma non astratta: incontri veri, non fotocopie di lezioni già fatte.
• Accompagniamo psicologicamente e spiritualmente, con persone esperte, non improvvisate.
• Legittimiamo il legame con la propria famiglia, con amici sinceri, con persone che possono offrire calore e ascolto.
Una Chiesa che benedice la carne
Don Matteo è morto giovane, ma il suo grido non deve morire con lui.
È il grido di tanti altri preti stanchi, soli, pieni di fede ma svuotati di respiro.
Il grido di chi ha bisogno che la Chiesa torni a dire al cuore dell’uomo: “Sei cosa sacra”.
Perché Dio non è venuto per condannare la carne, ma per abitarla e santificarla.
E se Gesù si è fatto uomo, è per farci diventare tutti rivelazione dell’amore del Padre.
Una supplica finale
Alla Chiesa che amo, dico: ascolta il dolore, non giudicare il grido.
Fermati, guarda, tocca. Torna umana.
E solo così sarai di nuovo divina".