Lettera aperta a don Matteo, del Dott.re Carlo D'Angelo

Dott.re Carlo D'Angelo : Lettera a don Matteo

Caro don Matteo,
il tuo nome risuona in questi giorni con una mestizia che non si riesce a dire.
È sulle labbra di tutti, ma pronunciato piano, come si fa con le parole sacre o dolorose.
È un nome che adesso brucia.
Perché tu eri uno di noi.
E ci hai lasciato in silenzio, come si lascia una stanza quando nessuno guarda.

Quando un prete muore così, non è solo dolore: è anche un fallimento ecclesiale.

È la voce di una ferita che ci riguarda tutti, e che va guardata senza difese.

“Preti si nasce e poi si sanguina”, scriviamo.
Tu hai sanguinato, Matteo.
Dietro il tuo sorriso mite, dietro la liturgia fatta con cura, dietro l’oratorio che ti assorbiva, c’era forse un figlio che non si sentiva davvero a casa.
Ci si può dare totalmente, e sentirsi comunque soli.

È una delle trappole più insidiose del ministero: dare tutto, senza mai sentirsi accolti per quello che si è.

Il fare non salva, se nessuno custodisce l’essere.

Il tuo ultimo gesto ci lascia nudi.

Ci toglie ogni alibi.
Io, oggi, non avrei il coraggio di fare un’omelia.
Mi inginocchierei in fondo alla chiesa.
E vorrei solo domandarti perdono.

Il dolore ha bisogno di silenzi veri, non di parole giuste. Il gesto più profondo, a volte, è semplicemente inginocchiarsi.

E dire: “non ti abbiamo visto”.

Perdonaci, Matteo.
Perché ti abbiamo lasciato solo, mentre dicevamo che “eri benvoluto”.
Perché abbiamo confuso l’efficienza con la vocazione, la stima con la cura.
Perché abbiamo ridotto il Vangelo a una prestazione, la fraternità a un’agenda.

È il cuore del problema: non basta “volere bene”.

Bisogna costruire reti vere, prossimità quotidiana, relazioni che respirano.

Non burocrazia.

Ti abbiamo trattato come un giovane promettente.
Ma tu non eri una promessa.
Eri un figlio.

Di Dio.

Ma anche nostro.

I giovani preti non sono risposte alla crisi vocazionale. Sono uomini fragili, in cammino.
E la Chiesa li deve accompagnare, non usarli.

Ti abbiamo chiesto di celebrare anche quando il cuore era in apnea.
Ti abbiamo chiesto di obbedire, senza accorgerci di cosa portavi dentro.
E tu portavi un inferno. Nessuno ti ha preso sul serio.

La solitudine interiore dei preti è una realtà troppo poco nominata.

E spesso, quando emerge, è già troppo tardi.

Non voglio parlare di “mistero”.
La tua morte non è un mistero. È un grido.
E nessuno l’ha ascoltato.

È più comodo parlare di mistero che interrogarci sul perché non abbiamo ascoltato. Ma se un grido non viene accolto, si trasforma in tragedia.

Ora, mentre in molti ripetono che “solo Dio conosce i cuori”, noi dobbiamo avere il coraggio di guardarci dentro.

Tu gridavi anche a noi. Con discrezione, con timidezza.

Ma gridavi.

E noi, troppo presi a gestire, non siamo stati capaci di stare.

Stare.

È il verbo dimenticato della pastorale. Stare come Maria sotto la croce: senza parole, ma presenti. Senza soluzioni, ma vivi.

Oggi vorrei credere che le tue mani si sono lasciate andare nelle mani del Padre.
E sulla tua bara, io non metto fiori.

Metto una promessa: che la tua morte non resti solo dolore.

Le morti come la tua chiedono conversione.

Non parole.

Chiedono che qualcosa cambi davvero.

Se una Chiesa non salva i suoi pastori, se un prete muore così, non bastano i comunicati.
Ci vuole una rivoluzione.

Di umanità.

Di prossimità.

Di paternità vera.

È tempo di dire basta a una Chiesa che forma “funzionari del sacro”, che valuta i presbiteri in base alla produttività, che ha smarrito il gusto delle relazioni autentiche.

Il tuo nome, Matteo, è ora scritto sul palmo delle mani di Dio.
Tu non sei fuggito.
Hai solo ceduto, stanco, sotto una croce che era diventata troppo pesante.

Non si tratta di giudicare. Si tratta di accogliere.

Di imparare a portare le croci insieme, prima che schiaccino.

Riposa, fratello.
E se puoi, prega per noi.

Perché la tua morte ci svegli.
Perché la tua assenza diventi profezia.

Ogni assenza può diventare voce.

Se abbiamo il coraggio di ascoltarla.

Intercedi, Matteo, perché la Chiesa torni ad avere pastori, non solo gestori.
Perché il Vangelo non resti chiuso in un cassetto.
Perché i presbiteri non siano più soli, ma accolti, sostenuti, liberati.

Serve più Vangelo e meno apparato.

Più padri e meno dirigenti.

Più fraternità reale e meno gerarchia sterile.

Che il Maestro ci scuota, se serve.
Che ci liberi da ciò che non è Cristo.
E se dobbiamo cadere in disgrazia, che sia per essere fedeli al Regno.

La libertà evangelica è scomoda.

Ma è l’unica via per una Chiesa che sia davvero segno del Regno.

Caro don Matteo,
ora cammina.
Tra i campi del Cielo.
Come un figlio che finalmente torna a casa.

PIÙ PASTORI, MENO FUNZIONARI: PER UNA CHIESA CHE CURA I SUOI PRETI

Ci sono gesti che non dovrebbero accadere.

Ci sono silenzi che gridano troppo tardi.

La morte di don Matteo, giovane presbitero di soli 35 anni, ha squarciato il cuore di tante comunità: parrocchiali, ecclesiali, seminaristiche.

Laici, vescovi, confratelli, amici: tutti si interrogano.

Ma le domande restano spesso sospese, mute, senza risposta. Eppure non possiamo tacere.

Don Matteo era benvoluto, stimato, presente.

Eppure qualcosa è crollato dentro, e nessuno ha colto quel cedimento.

Non è il momento delle accuse. Ma è il momento del dolore che interroga.

Da psicoterapeuta che accompagna numerosi presbiteri – spesso mandati in ascolto, a volte in segreto – sento il dovere di dare voce a chi vive un dramma simile, anche se non arriva all’estremo.

Molti preti non si tolgono la vita, ma ogni giorno si consumano in un copione distruttivo.

Isolati, oberati, invisibili, intrappolati in dinamiche pastorali che si confondono con la produttività aziendale.

Eppure, dietro le liturgie ben celebrate, gli oratori vivaci, le omelie curate, ci sono uomini. Uomini che possono sanguinare.

Una Chiesa che non si prende cura dei suoi preti, che li forma a prestazioni e doveri ma non alla verità di sé, è una Chiesa che rischia di perdere la propria anima.

Se la castità viene interpretata come isolamento, se l’obbedienza viene imposta come cieca esecuzione, se la fraternità è solo un’agenda da rispettare… allora abbiamo perso il volto di Cristo.

È tempo di cambiare.
È tempo di custodire.
È tempo di formare uomini, non funzionari del sacro.

Proposte concrete:


• Creare vere fraternità sacerdotali nelle diocesi, dove potersi dire le fatiche, piangere, ridere, pregare e riposare insieme.

• Smettere di pensare che il prete debba essere tuttofare e onnipresente: non è manovalanza pastorale.

• Rivedere profondamente la formazione in seminario, i formatori, il linguaggio. Basta ripetizioni astratte, serve un cuore vivo.

• Accompagnare i preti nel vivere l’affettività, la tenerezza, anche la sessualità, con verità e responsabilità. Basta con l’ossessione di controllo.

• Ritrovare una visione evangelica della castità: non negazione, ma capacità di trascendenza, di relazione, di amore gratuito e fecondo.

• Non dimenticare che anche i preti hanno una famiglia: legami sani vanno custoditi, non temuti.

Dio non ha bisogno di eroi. Il Vangelo non ha mai chiesto prestazioni.
Abbiamo bisogno di uomini liberi, non impeccabili. Pastori veri, con la polvere dei passi, con le mani sporche di vita.

Don Matteo è morto, ma il suo silenzio è un grido che ci chiama a conversione.
Perché una Chiesa che non custodisce i suoi pastori non annuncia il Pastore buono.
E se un prete muore così, non servono solo preghiere o omelie: serve una rivoluzione di umanità.