Quando il problema non è l’identità, ma il potere che usa il desiderio, Dr. Carlo D’Angelo/Voce delle Soglie

C’è un punto su cui vale la pena essere molto chiari: il problema non è il maschile, il femminile, l’orientamento sessuale o l’identità di genere.

Il problema è quando il desiderio, l’accesso, l’appartenenza o la promessa di protezione diventano strumenti di potere.

Esistono dinamiche, ovunque, in ambienti eterosessuali come omosessuali, religiosi, artistici, politici, economici, in cui il legame non è più relazione, ma dispositivo.

Un sistema in cui: l’accesso passa attraverso rituali impliciti o espliciti, la vicinanza diventa moneta, il silenzio viene premiato, il dissenso viene punito, la dipendenza viene scambiata per appartenenza.

In questi contesti non conta chi sei, ma quanto sei ricattabile.

Il vero nodo: la dinamica iniziatica perversa.

Quello che descrivi assomiglia a una dinamica iniziatica degenerata: qualcuno “introduce, qualcuno “concede”, qualcuno “deve prestarsi”, qualcuno “perde tutto” se non obbedisce.

Queste dinamiche non hanno nulla a che fare con l’amore, con la libertà o con l’identità.

Hanno a che fare con strutture di potere che si alimentano di segreti, vergogna e paura di essere esclusi.

Il ricatto funziona solo dove: il bisogno di appartenere è più forte dell’integrità, la paura di perdere supera il rispetto di sé, il riconoscimento viene dall’esterno e non è interno

Quando il desiderio viene usato contro la persona.

Il punto più delicato è questo: non è il desiderio a essere malato, ma il suo uso come leva.

Quando qualcuno viene spinto a “prestarsi”, emotivamente, sessualmente, simbolicamente, non siamo più nel campo dell’eros, ma in quello della coercizione mascherata.

E questo può accadere: tra uomini, tra donne, tra eterosessuali, tra omosessuali, in ambienti pubblici o privati, in stanze visibili o camerette invisibili.

Il denominatore comune non è l’orientamento.

È la perdita di libertà.

Una cosa va detta con fermezza.

Non esistono “lobby” nel senso semplificato e totalizzante del termine.

Esistono micro-sistemi di potere, reti, dinamiche chiuse, che possono nascere ovunque e che diventano tossiche quando: non tollerano la trasparenza, non permettono il no, trasformano l’essere umano in strumento.

Attribuire tutto a una categoria identitaria rischia di: oscurare i veri meccanismi, colpire innocenti, impedire la comprensione profonda.

E soprattutto: toglie responsabilità ai singoli che abusano del potere.

Il lavoro vero da fare.

Il lavoro che vale la pena fare insieme non è “contro qualcuno”, ma a favore della coscienza: imparare a riconoscere le dinamiche di ricatto, distinguere appartenenza da dipendenza, separare desiderio da potere, capire quando un sistema chiede troppo in cambio, recuperare il diritto di dire no senza essere distrutti,

Questo è un lavoro adulto.

Scomodo.

Non ideologico.

Ed è l’unico che non produce nuovi fantasmi, ma smaschera quelli reali.

Qui non si lavora per accuse.

Non si cercano colpevoli, né si costruiscono tribunali morali.

Si prova a leggere i meccanismi, non a inchiodare le persone.

Per questo parlo di strategie difensive.

Perché molte dinamiche che appaiono disturbanti, manipolative o opache non nascono da un progetto di male, ma da tentativi di protezione messi in atto quando la paura è più forte della libertà.

Le strategie difensive servono a: mantenere un posto, non perdere riconoscimento, evitare l’esclusione, controllare l’accesso a potere, visibilità o appartenenza.

Non riguardano un genere, non appartengono a un orientamento, non sono proprietà di un’identità.

Agiscono ovunque ci sia paura di perdere, ovunque il valore personale venga confuso con il ruolo, ovunque l’appartenenza venga scambiata per salvezza.

Leggere una strategia difensiva non significa giustificarla, ma sottrarla all’ombra. Perché ciò che non viene visto finisce per ripetersi, irrigidirsi, diventare sistema.

Noi non accusiamo.

Distinguiamo.

Distinguiamo tra: persona e meccanismo, identità e ruolo, desiderio e difesa, libertà e adattamento.

Solo così diventa possibile una responsabilità che non sia colpevolizzante e una coscienza che non abbia bisogno di nemici per esistere.

Questo è il lavoro: non smascherare qualcuno, ma rendere leggibili i funzionamenti perché ognuno possa scegliere se continuare a difendersi o iniziare finalmente a vivere.

Il ricatto come strategia difensiva.

Ci sono dinamiche di potere che non hanno genere, non hanno orientamento, non hanno bandiera.

Hanno paura.

Il ricatto non nasce dal maschile o dal femminile, né dall’identità sessuale o dall’appartenenza a un gruppo.

Nasce da una fragilità che non può essere mostrata e che, per non collassare, si organizza.

Il ricatto è una strategia difensiva estrema: quando l’identità è fragile,
quando il posto occupato non è interiormente legittimato, quando il ruolo vale più della persona, allora il legame non può essere libero.

Deve diventare vincolo.

Il ricatto agisce ovunque ci sia: paura di perdere una posizione, terrore di essere smascherati, dipendenza dal riconoscimento altrui, bisogno di appartenenza senza maturità.

E allora il rapporto non è più incontro, ma garanzia reciproca di silenzio.

Non importa che si tratti di ambienti culturali, religiosi, artistici, politici, privati.

Non importa che siano relazioni omosessuali o eterosessuali.

Il meccanismo è sempre lo stesso: Io so qualcosa di te. Tu sai qualcosa di me. Restiamo legati, non per libertà, ma per paura.

Questo non è potere.

È prigionia condivisa.

Il ricatto non è sempre esplicito.

Spesso è sottile: favori che non possono essere rifiutati, accessi concessi in cambio di fedeltà, silenzi pretesi come prova di lealtà, rituali impliciti per “restare dentro”.

E più una struttura è fragile, più ha bisogno di ricatti per reggersi.

Per questo le lobby, di qualunque tipo, non sono forti perché unite, ma perché ricattabili.

Il collante non è un ideale, ma una vulnerabilità non elaborata.

E quando qualcuno prova a sottrarsi, non viene attaccato per ciò che è, ma per ciò che potrebbe dire.

Qui sta il punto centrale, ed è psicologico, non ideologico

Il ricatto prospera dove non c’è autostima strutturata.

Dove l’identità dipende dal ruolo.

Dove il valore non è interno, ma delegato.

Una persona integra può perdere un posto.

Chi è fragile non può perdere la maschera.

Per questo il lavoro non è smascherare gli altri, ma riconoscere i meccanismi.

Non accusare, ma comprendere.

Non combattere lobby, ma disinnescare le strategie difensive che le rendono possibili.

Il vero antidoto al ricatto non è la forza, ma la trasparenza interiore.

Non l’esposizione dell’altro, ma la capacità di dire: io posso perdere senza sparire. Finché questo non accade, il ricatto continuerà a cambiare volto, ma non struttura.

E continuerà a passare al di là del maschile e del femminile, al di là delle identità, al di là delle appartenenze.

Perché il ricatto non ha sesso.

Ha paura.

Il ricatto come strategia difensiva trasversale

Ci sono dinamiche che attraversano il lavoro, le relazioni affettive, i contesti spirituali e quelli più ordinari della vita quotidiana, e che non hanno nulla a che fare con il genere, l’orientamento sessuale o l’identità.

Una di queste è il ricatto.

Non il ricatto spettacolare, visibile, scandalistico.

Ma quello sottile, silenzioso, normalizzato.

Quello che non si nomina mai, ma che tutti imparano a riconoscere nel corpo.

Il ricatto è una strategia difensiva.

Nasce quando il potere non è interiormente fondato, quando la posizione non è sostenuta da autorevolezza reale, quando la relazione non regge la libertà dell’altro.

Allora si crea una dipendenza non dichiarata:  io ti proteggo, io ti faccio entrare, io ti garantisco accesso, visibilità, continuità ma tu, in cambio, non mi contraddici, non mi lasci, non mi smascheri, non esci dal rituale.

Questo accade ovunque: nel lavoro, quando il posto diventa ostaggio; nelle relazioni affettive, quando l’amore diventa leva; nei contesti spirituali, quando l’appartenenza sostituisce la verità; nei gruppi “alternativi”, quando la trasgressione diventa norma obbligata.

Il ricatto non chiede consenso esplicito.

Chiede adattamento.

E soprattutto non distingue: agisce tra uomini e donne, tra eterosessuali e omosessuali, tra ruoli diversi, tra chi apparentemente comanda e chi apparentemente subisce.

Per questo non è una questione identitaria.

È una questione psichica.

Il ricatto funziona perché intercetta una ferita: il bisogno di appartenere,
la paura di perdere, il terrore di essere esclusi, la fame di riconoscimento.

Quando una persona non sente di poter esistere senza quel contesto, accetta condizioni che, in uno stato di libertà interiore, non accetterebbe mai.

E qui il punto centrale.

Il ricatto non è solo ciò che l’altro fa.

È anche ciò che noi permettiamo quando non reggiamo il limite.

Non per colpa.

Per storia.

Per adattamento antico.

Per sopravvivenza appresa.

Per questo una lettura adulta non cerca colpevoli, ma responsabilità non difensiva.

Il lavoro vero non è smascherare qualcuno, ma smascherare il meccanismo :

quando una relazione chiede silenzio invece di parola, quando un contesto chiede fedeltà invece di coscienza, quando un ruolo chiede obbedienza invece di presenza.

Il segnale non è morale.

È corporeo.

Il corpo si irrigidisce.

Il linguaggio si riduce.

La paura cresce.

La libertà si restringe.

Lì c’è il ricatto, anche se nessuno lo nomina.

Restare sul piano della lettura significa questo: non accusare, non giustificare, non semplificare, non trasformare la complessità in ideologia Significa riconoscere che il ricatto è sempre una relazione malata con il limite.

E che la vera uscita non è la denuncia pubblica, ma la ricostruzione interna della libertà : la capacità di perdere qualcosa senza perdere sé stessi.

Questo lavoro non è rumoroso.

Non crea schieramenti.

Non offre nemici.

Ma restituisce una cosa essenziale: la possibilità di stare nei contesti senza dover vendere l’anima per restarci.

Il ricatto come strategia difensiva

Una lettura nei contesti spirituali e comunitari.

Ci sono dinamiche che attraversano i contesti umani indipendentemente dal genere, dall’orientamento, dall’identità o dal ruolo formale.

Non hanno a che fare con il maschile o il femminile.

Hanno a che fare con il potere, con la paura di perderlo e con le strategie difensive messe in atto per conservarlo.

Il ricatto è una di queste strategie.

Non va letto come un gesto individuale “cattivo”, ma come un meccanismo relazionale che nasce quando una comunità, un’istituzione o un contesto simbolico non regge più la verità dei propri funzionamenti.

Il ricatto emerge dove:

l’appartenenza vale più della coscienza, il ruolo vale più della persona, il silenzio viene scambiato per fedeltà, la copertura viene chiamata comunione.

Nei contesti spirituali o comunitari, questo meccanismo assume una forma particolarmente insidiosa perché si traveste di linguaggio alto: missione, bene comune, protezione dell’opera, salvaguardia dello scandalo, tutela dei piccoli.

Ma psicologicamente il funzionamento è sempre lo stesso.

Il ricatto non nasce dal desiderio di dominio, nasce dalla paura di essere smascherati.

Non serve a espandere la verità, serve a congelarla.

Può essere esplicito o implicito.

Può passare attraverso favori, protezioni, accessi, incarichi.

Può agire tramite silenzi, allusioni, debiti morali, promesse non dette.

E soprattutto: non sceglie le persone in base all’identità, sceglie le fragilità.

Chi è più vulnerabile, chi ha più bisogno di appartenenza, chi teme di perdere un ruolo, una comunità, una protezione simbolica, diventa terreno fertile.

Non perché “debole”, ma perché umano.

Il punto centrale, però, è questo: il ricatto funziona solo dove la responsabilità viene delegata.

Quando una persona rinuncia a pensare, a nominare, a distinguere, per “non disturbare”, per “non rompere l’unità”, per “non creare problemi”, il meccanismo trova spazio.

Non perché qualcuno è potente, ma perché qualcun altro smette di esserlo interiormente.

Questa non è un’accusa.

È una lettura.

E la lettura serve non per colpevolizzare, ma per restituire libertà.

Perché una comunità sana non è quella dove non accadono dinamiche disturbanti, ma quella dove possono essere pensate senza ritorsioni.

Dove la verità non è un pericolo, ma un criterio.

Dove la fedeltà non è obbedienza cieca, ma responsabilità adulta.

Restare su questo piano, quello dei meccanismi, è l’unico modo per non cadere nella caccia alle streghe, nelle semplificazioni ideologiche, nelle guerre identitarie che distruggono tutto senza guarire nulla.

Qui non si cerca un colpevole.

Si cerca consapevolezza.

Perché solo ciò che viene visto smette di agire nell’ombra.

E solo una coscienza che resta vigile può abitare un contesto spirituale senza diventarne ostaggio.